Vi segnalo un breve articolo apparso su New England Journal of Medicine:
Nel lavoro si discutono gli ottimi risultati ottenuti dai sistemi di tracciamento dei contagi della Corea del Sud, confrontandoli con gli esiti – più o meno fallimentari – di analoghe esperienze tentate negli Stati Uniti ed in Europa.
Il caso della Corea del Sud è interessante perché il Paese ha saputo far tesoro della precedente esperienza fatta in occasione della epidemia di MERS nel 2015. Va detto subito che il sistema coreano è un sistema molto “invasivo”, difficilmente accettabile secondo gli standard etici occidentali perché viola pesantemente la privacy delle persone contagiate.
In pratica, utilizzando i dati di geo-localizzazione che vengono continuamente rilasciati dai telefoni cellulari, per ciascun nuovo contagio le Autorità sanitarie coreane sono state un grado di fornire pubblicamente informazioni dettagliate sui luoghi visitati dal contagiato (inclusi i dati relativi ai tempi di permanenza) durante le due settimane precedenti alla scoperta del contagio. Chiunque, anche chi non conosceva direttamente il contagiato, poteva sapere se aveva avuto un contatto potenzialmente pericoloso.
Queste tecnologie, oltre a fornire una marcia in più al tracciamento dei contagi, hanno permesso di sapere con una certa precisione dove avvenivano i contagi e questo ha permesso alle Autorità coreane di effettuare chiusure “chirurgiche” evitando forme di lockdown generalizzato.
Va detto che le forme tecnologicamente sofisticate di tracciamento adottate in Corea non hanno impedito l’arrivo nel Paese di diverse ondate pandemiche, ma tutti i dati relativi a contagi, decessi e ai danni economici della pandemia mostrano valori largamente inferiori rispetto a quelli degli Stati Uniti e dell’Europa.
Stati Uniti ed Europa hanno scontato una generalizzata impreparazione. L’idea della pandemia era lontana dalle nostre menti e forse ci illudevamo che ormai certi fenomeni riguardassero solo qualche lontano e sfortunato Paese.
Quando si sono trovate di fronte alla sfida innescata dall’arrivo del virus, le società occidentali non hanno mai accettato di barattare la sicurezza con la privacy. È una storia che andrebbe approfondita perché tutti noi quotidianamente regaliamo le nostre informazioni più intime a Google e ai social network e siamo disposti a far sapere tutto sul nostro stato finanziario pur di ottenere qualche decina di Euro di “Cashback”, ma quando si parla di Covid-19 si alzano subito i muri della privacy più assoluta.
La scelta fatta da Stati Uniti ed Europa è stata più o meno in linea con le soluzioni tecnologiche adottate dalla sfortunata app “IMMUNI”. E anche l’esito di queste operazioni è stato più o meno lo stesso: un buco nell’acqua. In altre parole, i sistemi di tracciamento per funzionare devono essere invasivi.
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