Quotidianamente siamo bombardati dai numeri relativi all'efficacia dei vaccini. Sono numeri talvolta molto diversi tra loro e non sempre di facile interpretazione perché spesso sono ottenuti utilizzando metodologie disomogenee.
A livello di comunicazione si tende a dare molta enfasi al valore medio dell'efficacia, senza evidenziare l'indeterminazione statistica associata alla misura. Si tende a dimenticare che il valore medio è solo il valore più probabile, ma che - con una probabilità pari al 95% - il valore vero dell'efficacia potrebbe cadere entro un intervallo di valori (detto intervallo di confidenza al 95%) che potrebbe essere abbastanza ampio. Quindi la prima domanda da porsi quando viene annunciata una nuova stima è: "Quanto è accurata questa stima?". Spesso ci sono state discussioni feroci nella quali si confronta l'efficacia di vaccini diversi o dello stesso vaccino rispetto a differenti ceppi virali. Poi capita di vedere che l'incertezza statistica delle stime è talmente grande da rendere difficile qualsiasi tentativo di interpretazione.
Un secondo aspetto da tenere presente riguarda l'approccio seguito per la valutazione dell'efficacia di un vaccino. La parola "efficacia" quando viene riferita ad un farmaco viene tradotta in lingua inglese utilizzando due parole diverse: "efficacy" o "effectiveness". Il primo termine viene solitamente utilizzato per indicare la stima dell'efficacia che viene fatta lavorando su numeri dimensionalmente ridotti, ma molto ben controllati come avviene, ad esempio, durante gli studi di fase 3. Una volta superata questa fase, se il farmaco passa all'utilizzo di massa, si userà il termine "effectiveness" per indicare quella che in italiano potremmo chiamare "efficacia nel mondo reale". Quando si ha a che fare con grandi numeri (milioni ed oltre) aumenta considerevolmente la quantità di dati a disposizione, ma cambiano anche le metodologie di analisi dei dati che non possono essere così accurate e dettagliate come nel caso degli studi di fase 3 (limitati a poche decine di migliaia di volontari).
Un terzo elemento importante di cui tenere conto è il livello di protezione rispetto a cui si vuole stimare l'efficacia di un vaccino. Generalmente, durante gli studi di fase 3, si fa riferimento al rischio di contrarre un contagio sintomatico. Si escludono quindi i contagi asintomatici (difficili da individuare), mentre rimane talvolta qualche ambiguità sul livello di sintomi che fanno scattare la segnalazione del contagio (e devono comunque essere confermati da un tampone molecolare positivo).
In generale durante gli studi di fase 3 si lavora con qualche decina di migliaia di volontari (30 - 50 mila) che non abbiano mai contratto la Covid-19 in precedenza. Circa la metà di loro riceve il vaccino, mentre l'altra parte (il cosiddetto gruppo di controllo) riceve un placebo. Nessuno - neppure tra i volontari che vengono vaccinati e nel personale sanitario che li segue - conosce la lista di chi ha ricevuto il vaccino e di chi ha ricevuto il placebo.
Si suppone che i volontari siano esposti al rischio di contagio in modo rigorosamente omogeneo e che la loro distribuzione (età, genere, ecc.) sia rappresentativa dell'intera popolazione. La sperimentazione termina dopo che sono stati evidenziati un certo numero di contagi (tipicamente 100 - 200). A questo punto si va a verificare come sono distribuiti i contagi tra chi ha ricevuto il vaccino e chi ha ricevuto il placebo. L'efficacia (efficacy) del vaccino è calcolata tramite l'espressione:
E = 1 - [(Cv · NP) / (CP · Nv)]
dove CP e Cv indicano, rispettivamente, i contagi contati tra il gruppo che ha ricevuto il placebo e quello che ha ricevuto il vaccino. NP e Nv indicano il numero di volontari appartenenti ai due gruppi.
Ad esempio, durante la sperimentazione di fase 3 del vaccino Pfizer - BioNTech sono stati reclutati poco più di 40 mila volontari quasi esattamente suddivisi tra il gruppo del vaccino e quello del placebo. Complessivamente sono stati trovati 8 contagi tra i vaccinati e 162 contagi tra chi aveva ricevuto il placebo. Inserendo questi dati nella formula si ottiene E ≅ 0,95, ovvero una efficacia pari a circa il 95%.
In realtà, il calcolo viene fatto usando formule più complesse che tengono conto, tra l'altro, della distribuzione per classi d'età dei volontari e dei tempi di osservazione che possono essere diversi per i due gruppi (vaccinati e volontari che hanno ricevuto il placebo), ma la sostanza del calcolo è quella illustrata sopra. Si noti che E tende ad 1 (o se preferite l'efficacia tende al 100%) quando Cv tende a 0.
Come ricordato precedentemente, il calcolo dell'efficacia vaccinale fatto utilizzando la procedura fin qui discussa non tiene conto della gravità dei contagi. Ricordo che durante gli studi di fase 3 il numero assoluto di contagi gravi non è particolarmente elevato a causa della limitata numerosità del gruppo di volontari che viene ingaggiato. I numeri dei contagi che producono forme gravi di Covid-19 (o addirittura di decessi) sono in assoluto troppo piccoli per poterne estrarre conclusioni statisticamente affidabili.
Per poter investigare l'impatto dei vaccini rispetto alla prevenzione dei casi più gravi bisogna affidarsi alle cosiddette analisi nel "mondo reale", ovvero bisogna calcolare quella che gli inglesi chiamano "effectiveness".
Purtroppo, quando si opera nel mondo reale non è possibile disporre di un gruppo di controllo organizzato. Durante le prime fasi della campagna vaccinale è più facile fare confronti tra chi ha già ricevuto il vaccino e chi è ancora in attesa di essere vaccinato. Tuttavia, man mano che la vaccinazione procede, l'analisi diventa sempre più complicata. In linea di principio, sarebbe possibile costituire una sorta di gruppo di controllo virtuale associando al campione delle persone vaccinate un campione di non vaccinati che abbia caratteristiche omogenee in termini di distribuzione d'età, genere, etnia, provenienza regionale, data di contagio, abitudini sociali, ecc. Si tratta comunque di una procedura molto complessa, fattibile solo se si dispone di un efficace sistema informativo che raccolga i dati sanitari di un intero Paese (non è certamente il caso dell'Italia). In mancanza di un vero e proprio gruppo di controllo, si può osservare come calano i contagi dopo la vaccinazione, correggendo i dati per tener conto dell'andamento generale della pandemia. Sono procedure che comportano un ampio margine di incertezza e talvolta includono delle ambiguità interpretative che possono influenzare i risultati in modo significativo.
Quando si opera con i dati provenienti dal "mondo reale", il "vantaggio" (se così lo possiamo definire!) è che si ha a che fare con numeri grandi anche per i contagi più gravi e quindi si può stimare l'efficacia (intesa come effectiveness) anche per specifiche forme di contagio come, ad esempio, quelle che comportano l'ospedalizzazione.
In generale l'efficacia di un vaccino (ovvero il grado di protezione) rispetto ai contagi più gravi è più elevata rispetto a quella che si stima rispetto ad una qualsiasi forma di contagio sintomatico. Questo equivale a dire che, in caso di contagio, le persone vaccinate tendono a contrarre forme meno gravi della malattia, mediamente con minore carica virale e con sintomi più blandi.
Ovviamente non si può escludere che i vaccini impediscano del tutto forme gravi di contagio, specialmente nelle persone che hanno un sistema immunitario indebolito a causa dell'età o di malattie pregresse, oppure in presenza di ceppi virali particolarmente aggressivi. Ma si tratta - come al solito - di un discorso probabilistico: anche se i vaccini non offrono una protezione assoluta, garantiscono comunque un elevato livello di protezione e possono salvare molte vite umane.
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