La tragica scomparsa del dottor Giuseppe De Donno ha finito per rilanciare la fake news secondo cui il plasma iperimmune sarebbe una cura efficace per la Covid-19, ma che tale terapia sarebbe stata volutamente stroncata per tutelare interessi economici "superiori". Taluni commentatori politici e guru no-vax non si sono fermati neppure davanti al dramma umano del dottor De Donno, arrivando a sostenere che in realtà il medico mantovano sarebbe stato la vittima di un complotto, mettendo in dubbio anche le cause della sua scomparsa.
La storia del plasma iperimmune può essere compresa meglio tornando a quello che succedeva negli ospedali italiani durante i primi mesi del 2020. A causa di una pandemia inaspettata e completamente sconosciuta, i medici si sono improvvisamente trovati davanti ad una valanga di pazienti che arrivavano nei loro reparti, spesso in condizioni molto critiche. Lo sforzo fatto da medici e infermieri è stato enorme. Talvolta hanno dovuto combattere la pandemia senza poter disporre neppure delle più elementari forme di protezione e per capire quanto fosse difficile la situazione basterebbe ricordare il grande numero di coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per la cura dei malati.
La mancanza di farmaci specifici ha portato molti medici a tentare cure di tipo "compassionevole". Di fronte a malati che rischiavano seriamente la vita sono stati provati farmaci approvati per altre malattie e trattamenti già applicati in passato per malattie simili.
Il plasma iperimmune appartiene a quest'ultima categoria. In passato era già stato provato per il trattamento di Ebola e della MERS ed è stato quindi naturale verificare il suo eventuale funzionamento con le persone contagiate da SARS-CoV-2. L'idea è molto semplice: si tratta di estrarre dal sangue di pazienti guariti dalla Covid-19 il siero contenente gli anticorpi specifici che sono stati sviluppati durante la malattia. Questo stesso siero iniettato nei nuovi malati potrebbe aiutarli a combattere l'infezione.
Durante quei mesi concitati di inizio 2020 sono stati molti gli annunci, amplificati dai mezzi di informazione, sulla scoperta di trattamenti più o meno risolutivi che avrebbero permesso di trattare la Covid-19. Uno di questi riguardava appunto il trattamento con plasma iperimmune sviluppato dal dott. De Donno e dai suoi colleghi a Mantova e poi diffuso, in via sperimentale, anche in molti altri ospedali italiani. Purtroppo l'annuncio del plasma iperimmune come trattamento definitivo per curare la Covid-19, talmente efficace da azzerare tutti i decessi, è stata una colossale fake news, diventata tale aldilà delle intenzioni del dottor De Donno.
Una parte politica ha subito cercato di mettere il cappello sulla questione, sperando forse di far dimenticare le tante criticità nella gestione della pandemia che si erano verificate in Lombardia. Il risultato è stato quanto di più antiscientifico uno potesse immaginare: il dibattito sull'efficacia della cura si è spostato dalle sedi canoniche (riviste mediche e convegni scientifici) al dibattito televisivo e agli interventi sui social media. Il tutto è stato condito dall'immancabile complotto secondo cui la cura sarebbe stata osteggiata dalle multinazionali del farmaco perché avrebbe tolto mercato ai loro costosissimi farmaci ed agli (allora) futuri vaccini.
Guardando le cose in modo un po' più distaccato, si sarebbe potuto comprendere fin da subito che, in realtà, il metodo del plasma iperimmune soffre di molte limitazioni. La prima riguarda la selezione dei donatori che devono possedere un elevato titolo anticorpale. Solo una parte dei guariti da Covid-19 presenta queste caratteristiche ed un singolo donatore non può donare oltre una certa quantità di plasma. Da questo segue che - anche se il metodo funzionasse - ci sarebbe un problema di reperibilità del plasma, soprattutto nei momenti di forte risalita dei contagi. Ma anche ammesso di riuscire a trovare in modo illimitato plasma di buona qualità, il vero limite del trattamento è che serve a ben poco quando il paziente è già affetto da gravi complicanze.
Lo stesso identico problema lo osserviamo con i numerosi farmaci che sono stati introdotti nel corso dell'ultimo anno, tutti basati sull'utilizzo di anticorpi neutralizzanti di sintesi. Questi farmaci. a differenza del plasma iperimmune, hanno una composizione anticorpale nota e ben definita. In tutte le sperimentazioni cliniche che sono state fatte si è verificato che i benefici di questi farmaci si osservano soltanto se vengono utilizzati per trattare i pazienti subito dopo il contagio, prima che insorgano eventuali complicanze.
La cosa è facilmente comprensibile: idealmente gli anticorpi che combattono il virus dovrebbero essere già presenti al momento del contagio, proprio per evitare che il virus si installi nell'organismo dell'ospite o che, almeno, non raggiunga polmoni od altri organi critici, rimanendo confinato nelle vie aeree superiori. Questo è esattamente ciò che succede nelle persone vaccinate le quali sviluppano una risposta immunitaria pronta a riconoscere e neutralizzare il virus, anche se non hanno mai contratto la malattia.
Se somministriamo gli anticorpi dopo che la presenza del virus è stata evidenziata da un tampone positivo, può essere comunque troppo tardi perché il virus, nel frattempo, potrebbe essersi già diffuso all'interno dell'organismo. Se aspettiamo ulteriormente e somministriamo gli anticorpi quando si manifestano sintomi gravi è senz'altro troppo tardi perché ormai il virus è molto diffuso e la quantità di virus che gli anticorpi possono neutralizzare diventa trascurabile rispetto alla carica virale già presente nell'organismo del paziente. Inoltre gli anticorpi combattono il virus, ma nulla possono fare sugli effetti legati alle complicanze che sono già in atto.
Allora - uno si domanda - perché all'inizio del 2020 qualcuno ha ritenuto che il plasma iperimmune potesse essere la cura definitiva per la Covid-19? Anche qui dobbiamo tornare con la mente a quei giorni drammatici e alla spasmodica ricerca di qualche farmaco che ci aiutasse ad affrontare la situazione.
I medici che si trovavano in prima linea dovevano essere pronti a cogliere qualsiasi spunto per cercare di individuare i metodi migliori per il trattamento dei malati. Tuttavia non avrebbero mai dovuto dimenticare che poche decine di casi osservati in una corsia d'ospedale possono far
sperare che un certo farmaco funzioni, ma non sono assolutamente una
prova del suo funzionamento su larga scala. Purtroppo la validazione di nuovi farmaci richiede procedure molto più complesse che, nel momento dell'emergenza pandemica, non sempre sono state rispettate.
Bisogna innanzitutto che i pazienti vengano suddivisi in due gruppi di numerosità adeguata (per evitare eccessive fluttuazioni statistiche) e con caratteristiche similari per tutti i parametri che possono influenzare il risultato del test (età, genere, condizioni cliniche iniziali, presenza di co-morbilità, ecc.). Ad uno dei gruppi verrà dato il farmaco mentre all'altro gruppo verrà somministrato un placebo. Nessuno, nè i pazienti, nè i medici che li assistono, deve sapere a chi è stato somministrato il farmaco e a chi il placebo. Solo così viene garantita l'assoluta imparzialità del trattamento dei dati. Solo alla fine della sperimentazione si potrà sapere chi ha ricevuto il farmaco e chi il placebo e si potrà verificare l'eventuale efficacia del farmaco. Questa è esattamente la procedura seguita nella fase 3 dello sviluppo dei vaccini.
Non è un caso che tutti gli studi sul plasma iperimmune condotti in "doppio cieco" ed anche lo studio coordinato dall'italiana AIFA abbiano portato sostanzialmente alla medesima conclusione:
"Non ci sono prove statisticamente attendibili che il plasma iperimmune funzioni per il trattamento dei casi gravi. Forse potrebbe essere utile per il trattamento preventivo di persone a rischio, purché sia somministrato nella fase immediatamente successiva alla scoperta del contagio e comunque ben prima che si manifestino sintomi gravi."
Possiamo capire la delusione di chi aveva sperato che il plasma iperimmune potesse rappresentare un valido approccio per la cura della Covid-19, ma chi lavora in ambito scientifico deve sempre mettere nel conto la possibilità che le sue idee siano smentite dagli esperimenti fatti da altri scienziati. In fondo non è altro che l'antico detto galileiano "provare e riprovare", dove riprovare significa confutare le idee sbagliate.
Chi insiste ripetendo la fake news secondo cui qualche complotto internazionale avrebbe messo a tacere chi aveva trovato la cura definitiva per la Covid-19 mente sapendo di mentire e questa - secondo me - è anche una grave mancanza di rispetto verso la memoria del dottor Giuseppe De Donno. Non sappiamo cosa lo abbia spinto al suo gesto estremo. A lui va comunque riconosciuto l'amore per la professione medica e la dedizione per la cura dei pazienti. Anche lui, in fondo, è una delle tante vittime di questa terribile pandemia.