La pandemia di Covid-19 ha stimolato uno straordinario sviluppo di studi volti a comprendere la struttura ed i meccanismi di funzionamento dei virus appartenenti al sottogenere dei sarbecovirus a cui appartengono sia il virus SARS-CoV (detto anche SARS-CoV-1) che generò la pandemia di SARS nel 2003, sia il più noto e recente SARS-CoV-2. Lo scopo finale di questi studi è quello di sviluppare farmaci in grado di combattere tutti i virus appertenenti allo stesso sottogruppo, superando implicitamente anche gli ostacoli generati dalla comparsa, per uno stesso virus, di numerose varianti.
Lo sviluppo di farmaci antivirali - così come quello dei vaccini - trova spesso dei limiti legati alle continue mutazioni che caratterizzano la naturale evoluzione di tutti i virus. Nel caso del SARS-CoV-2 conosciamo moltissime mutazioni che hanno reso il virus più contagioso e/o più aggressivo rispetto al ceppo virale identificato inizialmente a Wuhan. Di fronte alle continue mutazioni del virus, l'attenzione degli scienziati si è concentrata su quelle parti del virus che hanno una piccolissima probabilità di mutare. Tale probabilità dipende essenzialmente da parametri legati alla struttura molecolare del virus.
Un buon criterio per identificare le parti meno soggette a mutazioni del SARS-CoV-2 è, ad esempio, quello di vedere quali sono le parti che sono rimaste identiche rispetto al precedente SARS-CoV-1. Se tali parti del virus non sono cambiate passando da SARS-CoV-1 a SARS-CoV-2 (che sono due virus diversi anche se sono tutti e due dei sarbecovirus) è ragionevole pensare che non siano facilmente modificabili nell'ambito delle mutazioni che appaiono per il SARS-CoV-2. Per analogia, è ragionevole ritenere che, se un domani dovesse apparire un SARS-CoV-3, le parti "comuni" dovrebbero rimanere più o meno le stesse. Insomma queste parti comuni - che solo oggi stiamo imparando ad identificare - possono essere pensate come una sorta di elemento caratterizzante di tutti i sarbecovirus.
L'esistenza di queste parti scarsamente soggette a mutazione non è casuale, ma è il risultato di un equilibrio esistente a livello molecolare, legato alle caratteristiche microscopiche del virus. In altre parole, se si prova a modificare uno di questi "punti fermi" (cosa che statisticamente può accedere con una certa frequenza) il nuovo virus diventerà "instabile" e non sarà in grado di riprodursi.
Individuare questi possibili "talloni d'Achille" virali non è facile e richiede l'utilizzo di tecniche sperimentali che indaghino il virus a livello molecolare. Tali tecniche devono essere combinate con sofisticati metodi di calcolo quantistico che consentano di capire i dettagli della struttura e della dinamica interna del virus.
Sono indagini molto complesse, ma nel corso degli ultimi mesi si sono visti i primi risultati di un certo rilievo. Ancora non abbastanza per rispondere a tutte le domande che gli scienziati si sono posti, ma certamente un enorme passo in avanti verso la comprensione dettagliata del problema.
Recentemente sono stati pubblicati due lavori che vi segnalo perché sono - a mio avviso - molto interessanti. Vi anticipo che la comprensione di questi lavori richiede conoscenze di microbiologia e/o di chimica quantistica piuttosto approfondite. Per chi si accontenta, cercherò di spiegare - in estrema sintesi - quali sono i principali risultati raggiunti e, soprattutto, quali sono prospettive aperte dal punto di vista terapeutico.
Il primo lavoro è stato pubblicato da un gruppo di ricerca guidato dal Professor Harald Schwalbe dell'Istituto di Chimica organica e biologica della Goethe University (Francoforte, D). Lo studio usa un approccio un po' diverso rispetto al solito e, invece di considerare la proteina spike, è andato ad analizzare la struttura della molecola di RNA del virus. Lo studio ha evidenziato 15 punti della molecola di RNA uguali per tutti i sarbecovirus che sono stati analizzati. Ciascuno di questi 15 punti è un possibile obiettivo per farmaci specifici in grado di legarsi chimicamente nei punti stessi, rendendo più difficoltosa (o impedendo del tutto) la replicazione del virus. Lo studio proseguirà nei prossimi mesi per valutare l'efficacia di alcune decine di molecole che sono già state identificate come possibile farmaco.
Un secondo lavoro, apparso su Nature, ha fatto uso di tecniche di cristallografia a raggi X basate su luce di sincrotrone e di altre metodologie per l'analisi sperimentale e teorica di strutture molecolari, per studiare il modo con cui alcuni anticorpi neutralizzanti si legano alla proteina spike. In particolare, l'attenzione degli scienziati si è focalizzata su un anticorpo denominato S309 che era stato originariamente individuato nel plasma di persone che nel 2003 avevano contratto la SARS. Questo anticorpo ha dimostrato di essere in grado di attaccare anche il virus SARS-CoV-2 e tutte le sue principali varianti. Partendo da questo anticorpo, è stato sviluppato un farmaco denominato sotromivab il cui uso è stato autorizzato in via emergenziale dalla FDA fin dallo scorso mese di maggio. I primi dati sul suo utilizzo mostrano una riduzione della probabilità di ricovero o di decesso pari all'85% per i pazienti ad alto rischio di ospedalizzazione a cui viene somministrato nelle fasi iniziali della malattia (molto prima che compaiano sintomi gravi).
Il lavoro appena pubblicato estende gli studi ad altri anticorpi, cercando di capire, sulla base di una dettagliata analisi svolta a livello molecolare, quali siano le caratteristiche che permettono agli anticorpi di attaccare il virus, indipendentemente dalle sue mutazioni. In particolare, è stato individuato un nuovo anticorpo (S2H97) che si è dimostrato efficace per la neutralizzazione di diversi tipi di sarbecovirus e riesce ad attaccare efficacemente tutte le principali varianti del virus SARS-CoV-2. Questo anticorpo si è dimostrato molto efficace nelle prime sperimentazioni in-vivo fatte su cavie animali.
In conclusione, dopo oltre un anno e mezzo dall'inizio della pandemia, si incomincia finalmente a capire quali siano i meccanismi molecolari che governano i processi di mutazione virale e quali siano le parti del SARS-CoV-2 meno soggette a variazioni e quindi in grado di fornire un bersaglio "stabile" per i farmaci (ed anche per i futuri vaccini di seconda generazione).
Tutto questo è il frutto di decenni di studi nei campi della fisica, della chimica e della biologia che ci hanno permesso di imparare a conoscere in modo dettagliato la struttura e la dinamica delle molecole di interesse biologico. I moderni metodi di calcolo quantistico hanno fatto il resto, consentendoci di sviluppare simulazioni sofisticate.
Aldilà dei tecnicismi, il messaggio fondamentale è che le varianti virali non sono una "maledizione caduta dal Cielo". Sono il risultato di processi naturali la cui dinamica può essere compresa a livello molecolare. Fino ad oggi abbiamo reagito all'attacco della pandemia giocando sostanzialmente in difesa: distanziamento sociale, mascherine ed i vaccini "di prima generazione" sono strumenti preziosi per evitare che si ripetano i disastri dell'anno 2020, ma solo passando ad una "strategia d'attacco" possiamo pensare di contrastare efficacemente il virus SARS-COV-2 (in tutte le sue possibili varianti) e gli altri tipi di sarbecovirus che prima o poi faranno il salto di specie.
Gli studi di cui vi ho brevemente parlato in questo post sono solo un esempio di come si potrà impostare una "strategia d'attacco" che evidenzi il "tallone d'Achille" del virus e lo colpisca con precisione.