Questo post è stato modificato rispetto alla versione mostrata originariamente per includere una discussione più dettagliata dei risultati dello studio osservazionale condotto in Scozia [1]
Nel momento in cui, almeno nella parte del Mondo che può permettersi il “lusso” della vaccinazione, si sta concretizzando la speranza di uscire dalla pandemia, l’attenzione delle Autorità sanitarie internazionali è concentrata sul possibile sviluppo di nuove varianti virali che potrebbero far tornare all’indietro le lancette dell'orologio.
Al momento, la lista delle varianti virali che destano più preoccupazione (le cosiddette VOC dall’inglese “variants of concern”) e devono essere tenute sotto stretta osservazione comprende tre ceppi virali: la variante inglese B.1.1.7, la variante sudafricana B.1.153 e la variante brasiliana P.1. Sappiamo ancora poco sulla cosiddetta variante indiana, ma anche questo nuovo ceppo potrebbe aggiungersi in futuro alla lista delle VOC.
La domanda che tutti si pongono è: “Ci sono VOC che possono ridurre l’efficacia degli attuali vaccini?” che – tradotta nel gergo giornalistico talvolta diventa: ”ci sono varianti che bucano i vaccini?”.
La questione non è solo accademica perché se si dovessero diffondere varianti che vengono scarsamente bloccate dai vaccini (o dagli anticorpi acquisiti da coloro che hanno già contratto la malattia) c’è il concreto pericolo che già nel prossimo autunno dovremmo rifare una nuova campagna vaccinale di massa utilizzando vaccini di nuova generazione. Una sfida enorme che metterebbe in difficoltà anche molti Paesi ricchi a cominciare dall'Italia.
In questo momento, le informazioni disponibili sul grado di protezione offerto dai vaccini rispetto alle VOC sono ancora incompleti. Ci sono molti esperimenti realizzati in laboratorio utilizzando tecniche differenti. Alcuni di questi esperimenti sembrano dimostrare una minore efficacia degli attuali vaccini soprattutto rispetto alla varianti B.1.153 e P.1 (si veda, ad esempio, la discussione che appare nella ref. [4]). Purtroppo non è facile capire quanto la minore efficacia osservata in laboratorio possa impattare sull'evoluzione della pandemia nel mondo reale.
In questo periodo stanno uscendo nuovi lavori basati sul metodo osservazionale che ci possono essere d’aiuto per capire meglio quale sia l'effettivo impatto delle VOC. In pratica, questi studi seguono grandi campioni di popolazione (fino a qualche milione) e confrontano il numero di casi di contagio riscontrati tra i vaccinati e tra le persone non vaccinate. Tramite analisi statistiche abbastanza sofisticate è possibile ottenere una stima per l'efficacia dei vaccini, sia dopo che la vaccinazione è stata completata, sia nel periodo intermedio tra la prima e la seconda dose (per tutti i vaccini che prevedono la somministrazione di due dosi).
Gli studi osservazionali non sono facili da condurre perché richiedono l’accesso a grandi basi di dati e una accurata selezione dei casi delle persone che risultano positive al virus, sia di quelle vaccinate che di quelle non vaccinate. Poiché il contagio ed i suoi esiti (asintomatico, sintomatico, grave, letale) possono dipendere da vari fattori (età, data del contagio, genere, stile di vita, etnia, presenza di altre patologie, ecc.) è necessario sviluppare un’analisi dei dati che tenga conto di tutti questi fattori e che riesca ad estrarre le informazioni cercate senza farsi “confondere” da effetti spurii. Inoltre quando si combinano i dati di persone vaccinate in un arco di tempo abbastanza ampio, bisogna tenere conto che l'effetto osservato dipende anche dalla circolazione virale che può cambiare notevolmente durante il corso dell'indagine (ad esempio, a causa dell'introduzione di misure di lockdown).
Un altro problema tipico di questi studi è legato alla possibile compresenza – durante il tempo di osservazione – di più ceppi virali. Un tipico esempio è quello dell’indagine fatta in Scozia per studiare la riduzione dei casi di contagio più gravi (che comportano l’ospedalizzazione) in funzione della prima dose vaccinale. Lo studio, apparso inizialmente come preprint [5] e recentemente pubblicato, con lievi modifiche, dalla rivista Lancet [1] è stato condotto nel periodo 8 dicembre 2020 – 22 febbraio 2021. In pratica, lo studio è iniziato circa una settimana prima che in Scozia venisse identificato il primo caso di variante inglese e si è concluso quando tale variante era ormai dominante (aveva raggiunto il 75% dei casi già alla fine del mese di gennaio).
Lo studio scozzese riporta con una certa evidenza che il grado di protezione rispetto alle forme di contagio gravi (tali da richiedere l'ospedalizzazione) raggiunge un valore del 91% tra il 28esimo ed il 34esimo giorno dopo la somministrazione della prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech. In realtà, il lavoro riporta l'andamento del grado di protezione stimato durante un arco di tempo più lungo (fino ad oltre 6 settimane). Il grafico seguente mostra l'andamento dell'efficacia vaccinale in funzione del tempo trascorso rispetto alla somministrazione della prima dose. Ricordo che in Scozia la seconda dose dei vaccini (sia Pfizer-BioNTech che AstraZeneca) viene regolarmente somministrata almeno due mesi dopo la prima dose.
La domanda che tutti si pongono è: “Ci sono VOC che possono ridurre l’efficacia degli attuali vaccini?” che – tradotta nel gergo giornalistico talvolta diventa: ”ci sono varianti che bucano i vaccini?”.
La questione non è solo accademica perché se si dovessero diffondere varianti che vengono scarsamente bloccate dai vaccini (o dagli anticorpi acquisiti da coloro che hanno già contratto la malattia) c’è il concreto pericolo che già nel prossimo autunno dovremmo rifare una nuova campagna vaccinale di massa utilizzando vaccini di nuova generazione. Una sfida enorme che metterebbe in difficoltà anche molti Paesi ricchi a cominciare dall'Italia.
In questo momento, le informazioni disponibili sul grado di protezione offerto dai vaccini rispetto alle VOC sono ancora incompleti. Ci sono molti esperimenti realizzati in laboratorio utilizzando tecniche differenti. Alcuni di questi esperimenti sembrano dimostrare una minore efficacia degli attuali vaccini soprattutto rispetto alla varianti B.1.153 e P.1 (si veda, ad esempio, la discussione che appare nella ref. [4]). Purtroppo non è facile capire quanto la minore efficacia osservata in laboratorio possa impattare sull'evoluzione della pandemia nel mondo reale.
In questo periodo stanno uscendo nuovi lavori basati sul metodo osservazionale che ci possono essere d’aiuto per capire meglio quale sia l'effettivo impatto delle VOC. In pratica, questi studi seguono grandi campioni di popolazione (fino a qualche milione) e confrontano il numero di casi di contagio riscontrati tra i vaccinati e tra le persone non vaccinate. Tramite analisi statistiche abbastanza sofisticate è possibile ottenere una stima per l'efficacia dei vaccini, sia dopo che la vaccinazione è stata completata, sia nel periodo intermedio tra la prima e la seconda dose (per tutti i vaccini che prevedono la somministrazione di due dosi).
Gli studi osservazionali non sono facili da condurre perché richiedono l’accesso a grandi basi di dati e una accurata selezione dei casi delle persone che risultano positive al virus, sia di quelle vaccinate che di quelle non vaccinate. Poiché il contagio ed i suoi esiti (asintomatico, sintomatico, grave, letale) possono dipendere da vari fattori (età, data del contagio, genere, stile di vita, etnia, presenza di altre patologie, ecc.) è necessario sviluppare un’analisi dei dati che tenga conto di tutti questi fattori e che riesca ad estrarre le informazioni cercate senza farsi “confondere” da effetti spurii. Inoltre quando si combinano i dati di persone vaccinate in un arco di tempo abbastanza ampio, bisogna tenere conto che l'effetto osservato dipende anche dalla circolazione virale che può cambiare notevolmente durante il corso dell'indagine (ad esempio, a causa dell'introduzione di misure di lockdown).
Un altro problema tipico di questi studi è legato alla possibile compresenza – durante il tempo di osservazione – di più ceppi virali. Un tipico esempio è quello dell’indagine fatta in Scozia per studiare la riduzione dei casi di contagio più gravi (che comportano l’ospedalizzazione) in funzione della prima dose vaccinale. Lo studio, apparso inizialmente come preprint [5] e recentemente pubblicato, con lievi modifiche, dalla rivista Lancet [1] è stato condotto nel periodo 8 dicembre 2020 – 22 febbraio 2021. In pratica, lo studio è iniziato circa una settimana prima che in Scozia venisse identificato il primo caso di variante inglese e si è concluso quando tale variante era ormai dominante (aveva raggiunto il 75% dei casi già alla fine del mese di gennaio).
Lo studio scozzese riporta con una certa evidenza che il grado di protezione rispetto alle forme di contagio gravi (tali da richiedere l'ospedalizzazione) raggiunge un valore del 91% tra il 28esimo ed il 34esimo giorno dopo la somministrazione della prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech. In realtà, il lavoro riporta l'andamento del grado di protezione stimato durante un arco di tempo più lungo (fino ad oltre 6 settimane). Il grafico seguente mostra l'andamento dell'efficacia vaccinale in funzione del tempo trascorso rispetto alla somministrazione della prima dose. Ricordo che in Scozia la seconda dose dei vaccini (sia Pfizer-BioNTech che AstraZeneca) viene regolarmente somministrata almeno due mesi dopo la prima dose.
Protezione rispetto a infezioni gravi (che richiedono un ricovero ospedaliero) stimata in funzione del tempo trascorso dopo la somministrazione della prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech [1]. Ho escluso dal grafico il dato relativo alla prima settimana perché è chiaramente affetto da un errore sistematico |
Come si vede abbastanza chiaramente, il dato dell'efficacia stimata alla quinta settimana dopo la vaccinazione raggiunge un massimo, ma non si può escludere che tale massimo sia fittizio e che un valore medio leggermente inferiore all'80% sarebbe più appropriato. Poiché in altri lavori viene solitamente considerato il livello di efficacia registrato durante la terza settimana (in pratica l'ultima prima della somministrazione della seconda dose se la vaccinazione viene fatta con i tempi canonici), d'ora in avanti per la referenza [1] considererò tale valore (69% con intervallo di confidenza al 95% compreso tra il 62 ed il 75%).
Nella figura seguente ho provato a riportare i dati dell’indice di protezione offerta da una prima dose del vaccino Pfizer-BioNTech confrontando i risultati di studi fatti in Scozia [1], Israele [2] e Qatar [3]. Per ogni lavoro – ove disponibile – viene mostrato il livello di protezione rispetto a tutte le infezioni rilevate (punti rossi) e quello (generalmente più alto) rispetto alle infezioni più gravi, tali da causare almeno l’ospedalizzazione (punti blu).
Efficacia di una singola dose del vaccino Pfizer-BioNTech nella prevenzione di alcune varianti virali. I dati sono tratti dalle referenze [1], [2] e [3]. I punti rossi si riferiscono a tutti i contagi, mentre quelli blu si riferiscono ai casi più gravi (che comportano almeno un ricovero ospedaliero). Per ogni dato viene indicata anche la variante virale che ha dato luogo ai contagi. Per la ref. [1] non conosciamo esattamente questo dato. Probabilmente sono stati messi assieme casi di variante inglese e casi delle varianti meno contagiose (no-VOC) che circolavano in precedenza. Si noti che i tre diversi lavori usano differenti tempistiche per valutare i casi di contagio relativi alle persone vaccinate (vedere il testo per i dettagli) |
Lo studio qatarino [3] è l’unico in cui i dati sono stati suddivisi in base al ceppo virale che ha causato il contagio. Lo studio riporta i dati dell'efficacia sia per la variante inglese che per quella sudafricana. Ambedue le varianti hanno circolato contemporaneamente in Qatar durante la prima parte del 2021.
Purtroppo i dati dei contagi evidenziati dopo la prima dose vaccinale sono stati analizzati considerando tutti i contagi diagnosticati a partire dal giorno immediatamente seguente alla vaccinazione. La metodologia è alquanto discutibile perché sappiamo che il tempo di incubazione della Covis-19 può arrivare fino a due settimane. Eventuali contagi contratti prima di ricevere il vaccino possono far apparire i sintomi molto dopo la data di vaccinazione. A parte il problema legato al tempo di incubazione, bisogna tener conto anche del fatto che il vaccino impiega un certo tempo per produrre gli anticorpi neutralizzanti. Avrebbe avuto più senso contare solo i contagi diagnosticati dopo due settimane dalla prima vaccinazione e prima della dose di richiamo. In pratica una sola settimana perché, se si seguono le indicazioni del produttore, la seconda dose viene fatta 21 giorni dopo la prima.
Questa è esattamente la definizione di contagio dopo la prima dose vaccinale utilizzata nello studio fatto in Israele [2] che tra tutti e tre è quello – a mio avviso – fatto meglio. Nel lavoro non appaiono esplicitamente i dati relativi all’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech dopo la prima dose (e infatti non ne avevo scritto quando avevo segnalato l'articolo in un post precedente), ma se si va a leggere il cosiddetto “Materiale supplementare” si trova una tabella dove questi dati sono presentati in dettaglio. Per quanto riguarda la variante virale, lo studio copre un periodo (24 gennaio – 3 aprile) dove la variante inglese era assolutamente dominante in Israele.
Riassumendo, abbiamo alcuni dati sperimentali estratti con modalità non esattamente sovrapponibili tra di loro:
I dati dello studio [3] sono probabilmente sottostimati a causa della scelta sbagliata fatta nell’analisi dei casi (in una comunicazione privata uno degli Autori mi ha scritto che stanno comunque rivedendo i dati e non escludono di presentare una versione allineata alla scelta 14-21 giorni). La cosa più interessante dello studio qatarino è che il livello di protezione rispetto alla variante sudafricana è decisamente inferiore rispetto alla variante inglese. Questo conferma quanto visto in alcuni studi in vitro ed anche i risultati qualitativi di un precedente studio osservazionale israeliano risalente a poche settimane fa [4].
Purtroppo l’anomala analisi dei dati fatta nello studio [3] non ci permette di dare una stima realistica di quanto possa essere l’efficacia del vaccino. Tenuto conto che con due dosi la copertura offerta contro la variante sudafricana arriva solo al 75% [3], temo che difficilmente la copertura di una sola dose vaccinale superi il 50%. Questo pone seri interrogativi sulla validità della strategia di rimandare la somministrazione della seconda dose vaccinale dopo i canonici 21 giorni, soprattutto quando si è in presenza di varianti come quella sudafricana che sono più resistenti ai vaccini.
Come vedete, il quadro è ancora abbastanza indefinito e ci sono molte domande ancora senza risposta. In particolare, non sono ancora usciti studi osservazionali relativi alle varianti brasiliana o indiana. Il paradosso è che per fare questi studi bisogna vaccinare una parte significativa della popolazione e, in buona parte del mondo, i vaccini sono ancora un lusso per pochi privilegiati. In quelle stesse parti del Mondo, ogni giorno potrebbe nascere un nuovo ceppo virale in grado di dare nuova forza alla pandemia, anche nei Paesi ricchi.
Questa è esattamente la definizione di contagio dopo la prima dose vaccinale utilizzata nello studio fatto in Israele [2] che tra tutti e tre è quello – a mio avviso – fatto meglio. Nel lavoro non appaiono esplicitamente i dati relativi all’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech dopo la prima dose (e infatti non ne avevo scritto quando avevo segnalato l'articolo in un post precedente), ma se si va a leggere il cosiddetto “Materiale supplementare” si trova una tabella dove questi dati sono presentati in dettaglio. Per quanto riguarda la variante virale, lo studio copre un periodo (24 gennaio – 3 aprile) dove la variante inglese era assolutamente dominante in Israele.
Riassumendo, abbiamo alcuni dati sperimentali estratti con modalità non esattamente sovrapponibili tra di loro:
- Il dato scozzese [1] raccoglie casi che sono una miscela di variante inglese e di non-VOC (le varianti meno contagiose che giravano in Europa prima della diffusione della variante inglese). L'efficacia mostrata in figura è quello stimata durante la terza settimana dopo la somministrazione del vaccino, analogamente a quanto fatto nello studio [2], ma il lavoro riporta anche i valori di efficacia stimati nelle settimane successive che sono, generalmente, più alti.
- Il dato israeliano [2] è quello statisticamente più “robusto”: praticamente solo variante inglese, con contagi verificati nei giorni 14-21 dopo la prima dose.
- Il dato qatarino [3] definisce bene il tipo di variante che ha determinato il contagio, ma mescola tutti i contagi che sono stati rilevati nei giorni 1-21 dopo la prima vaccinazione, includendo quindi anche un certo numero di contagi che potrebbero essere avvenuti prima della somministrazione del vaccino e quindi fornisce una sottostima dell'efficacia vaccinale.
I dati dello studio [3] sono probabilmente sottostimati a causa della scelta sbagliata fatta nell’analisi dei casi (in una comunicazione privata uno degli Autori mi ha scritto che stanno comunque rivedendo i dati e non escludono di presentare una versione allineata alla scelta 14-21 giorni). La cosa più interessante dello studio qatarino è che il livello di protezione rispetto alla variante sudafricana è decisamente inferiore rispetto alla variante inglese. Questo conferma quanto visto in alcuni studi in vitro ed anche i risultati qualitativi di un precedente studio osservazionale israeliano risalente a poche settimane fa [4].
Purtroppo l’anomala analisi dei dati fatta nello studio [3] non ci permette di dare una stima realistica di quanto possa essere l’efficacia del vaccino. Tenuto conto che con due dosi la copertura offerta contro la variante sudafricana arriva solo al 75% [3], temo che difficilmente la copertura di una sola dose vaccinale superi il 50%. Questo pone seri interrogativi sulla validità della strategia di rimandare la somministrazione della seconda dose vaccinale dopo i canonici 21 giorni, soprattutto quando si è in presenza di varianti come quella sudafricana che sono più resistenti ai vaccini.
Come vedete, il quadro è ancora abbastanza indefinito e ci sono molte domande ancora senza risposta. In particolare, non sono ancora usciti studi osservazionali relativi alle varianti brasiliana o indiana. Il paradosso è che per fare questi studi bisogna vaccinare una parte significativa della popolazione e, in buona parte del mondo, i vaccini sono ancora un lusso per pochi privilegiati. In quelle stesse parti del Mondo, ogni giorno potrebbe nascere un nuovo ceppo virale in grado di dare nuova forza alla pandemia, anche nei Paesi ricchi.
Referenze:
- Eleftheria Vasileiou, et al."Interim findings from first-dose mass COVID-19 vaccination roll-out and COVID-19 hospital admissions in Scotland: a national prospective cohort study", Lancet, 397 (10285) 1646-1657, https://doi.org/10.1016/S0140-6736(21)00677-2
- Eric J. Haas, et al. "Impact and effectiveness of mRNA BNT162b2 vaccine against SARS-CoV-2 infections and COVID-19 cases, hospitalisations, and deaths following a nationwide vaccination campaign in Israel: an observational study using national surveillance data", The Lancet, published online May 05, 2021, https://doi.org/10.1016/S0140-6736(21)00947-8
- Laith J. Abu-Raddad, et al. "Effectiveness of the BNT162b2 Covid-19 Vaccine against the B.1.1.7 and B.1.351 Variants", N Engl J Med, May 05, 2021, https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMc2104974
- Talia Kustin, et al. "Evidence for increased breakthrough rates of SARS-CoV-2 variants of concern in BNT162b2 mRNA vaccinated individuals", preprint available at
- Eleftheria Vasileiou, et al. "Effectiveness of First Dose of COVID-19 Vaccines Against Hospital Admissions in Scotland: National Prospective Cohort Study of 5.4 Million People", preprint available at SSRN: http://dx.doi.org/10.2139/ssrn.3789264
COVID: OMS, 'CLASSIFICHIAMO INDIANA COME VARIANTE DI PREOCCUPAZIONE'
RispondiEliminalunedì 10 maggio 2021
"Si farà il punto domani" su alcune informazioni disponibili sulla "variante 'B.1.617' del coronavirus Sars-CoV-2, che è stata identificata per la prima volta in India". "Un lavoro non ancora sottoposto a revisione tra pari" condotto "su un limitato numero di pazienti suggerisce che vi sia una ridotta neutralizzazione. In quanto tale, classifichiamo questa come una variante che desta preoccupazione ('variant of concern - Voc).
Quello che vogliamo dire è che anche se un'aumentata trasmissibilità sarebbe dimostrata da alcuni studi preliminari, abbiamo bisogno di molte più informazioni su questa variante e su questo lignaggio e su tutti i suoi sub lignaggi".
A dirlo è stata l'epidemiologa Maria Van Kerkhove, a capo del gruppo tecnico dell'Organizzazione mondiale della sanità per il coronavirus, oggi durante la conferenza stampa da Ginevra. Finora quella indiana era classifica dall'Oms come 'variante d'interesse'.
(Adnkronos Salute)
Per Booking Holdings, che controlla "Booking.com", "Kayak" e "rentalcars.com", i ricavi nei primi tre mesi del 2021 sono scesi a 1,1 miliardi di dollari, il 50% in meno rispetto ai primi tre mesi del 2020.
RispondiEliminaLe speranze di una ripresa sono legate all’avanzamento della campagna vaccinale, che “prosegue lentamente in molti Paesi del mondo, mentre Israele, gli Usa e la Gran Bretagna stanno godendo i frutti dei loro efficienti programmi di immunizzazione”, ha spiegato Fogel.
“In queste nazioni le prenotazioni per le vacanze hanno visto trend incoraggianti, il che conferma la nostra convinzione che la distribuzione dei vaccini è la chiave per far ripartire la domanda di viaggi”.
https://it.businessinsider.com/prezzi-stellari-e-caos-sui-travel-pass-le-vacanze-estive-2021-rischiano-di-essere-per-pochi/