La questione dell'uso del plasma iperimmune (plasma con elevata densità di anticorpi donato da persone che siano recentemente guarite dalla Covid-19) per la cura dei pazienti Covid è stata oggetto di un ampio dibattito fin dall'inizio della pandemia. L'idea non era nuova ed era stata sperimentata in precedenza per la cura di altre patologie: alcuni si erano spinti a sostenere che potesse essere la cura risolutiva per combattere la pandemia di Covid-19.
Ad un certo punto, alcuni leader politici improvvisatisi esperti in medicina, hanno fortemente sostenuto la cura, ipotizzando che chi avanzava dei dubbi sulla sua efficacia lo facesse solo per favorire le multinazionali del farmaco, interessate a vendere i loro costosi vaccini. Queste prese di posizione hanno "avvelenato i pozzi", dando alla questione una assurda colorazione politica.
Dopo le prime improvvisate sperimentazioni, sono arrivati gli studi fatti in ambiente controllato ed in doppio cieco (né i pazienti, né i medici sapevano a chi veniva somministrato il farmaco e chi riceveva il placebo). Questi studi hanno riguardato inizialmente i casi di malattia più grave e non hanno fornito alcuna evidenza sull'efficacia del plasma iperimmune per ridurre il rischio di decesso o i tempi di decorso della malattia grave.
Recentemente la rivista The Lancet Respiratory Medicine ha pubblicato un nuovo studio che ha coinvolto volontari a cui il plasma iperimmune è stato somministrato pochi giorni dopo la comparsa dei sintomi, prima che si verificassero eventuali criticità.
In pratica, questa sperimentazione era orientata a comprendere se il plasma iperimmune, somministrato subito dopo la comparsa dei sintomi, potesse costituire una valida alternativa rispetto agli anticorpi monoclonali o ai nuovi farmaci antivirali (in particolare il Paxlovid) per prevenire ricoveri e decessi nei pazienti classificabili come "ad alto rischio" (coloro che, a causa dell'età e/o della presenza di altre patologie, corrono rischi elevati di sviluppare gravi complicanze).
Purtroppo, non c'è stata alcuna evidenza statistica di una evoluzione diversa della malattia tra chi aveva ricevuto il placebo e chi era stato trattato con plasma iperimmune. Alcuni studi precedenti avevano ipotizzato che il plasma iperimmune potesse fornire un certo livello di protezione per prevenire l'insorgenza di gravi complicanze, ma questo nuovo lavoro si conclude escludendo che tale trattamento possa essere efficace.
In un commento apparso sulla stessa rivista viene fatto il punto della situazione, evidenziando come la preparazione di farmaci basati su plasma iperimmune possa essere influenzata da vari fattori, non sempre semplici da tenere sotto controllo. In particolare, il trattamento che viene fatto per eliminare l'eventuale presenza di agenti patogeni presenti nel plasma potrebbe alterare, almeno in parte, gli anticorpi, riducendo l'efficacia del farmaco.
Ammesso e non concesso che il plasma iperimmune possa avere una certa efficacia per il trattamento precoce di pazienti ad alto rischio, si tratta comunque di un livello di efficacia limitato, decisamente inferiore rispetto a quello che viene garantito dai nuovi farmaci antivirali come il Paxlovid.
Qualcuno sostiene che il plasma iperimmune potrebbe essere una soluzione comunque "utile" per i Paesi più poveri, che non possono permettersi i costosi antivirali (il costo di un singolo trattamento è pari a circa 700 US$).
Personalmente non la trovo una buona idea. Dal punto di vista etico, non mi pare accettabile che i Paesi ricchi usino farmaci altamente efficaci, riservando ai Paesi poveri i farmaci poco (o per nulla) efficaci. Ricordo inoltre che, fin dal primo annuncio dello sviluppo del Paxlovid, Pfizer aveva comunicato di avere già previsto la cessione a titolo gratuito della licenza per la produzione e distribuzione del Paxlovid nei Paesi più svantaggiati. Quindi la soluzione si può trovare aiutando i Paesi più poveri ad ottenere i farmaci migliori.
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