mercoledì 30 giugno 2021

Variante indiana (Delta): il caso Gran Bretagna

Oggi la Gran Bretagna ha annunciato poco più di 26 mila nuovi contagi, più o meno il livello osservato a metà novembre 2020. Ad inizio gennaio, la Gran Bretagna registrò il massimo assoluto dei contagi (circa 60 mila nuovi contagi giornalieri), seguito poi da un rapido declino che si è interrotto intorno a metà maggio.

Non sappiamo ancora come evolverà la situazione della Gran Bretagna nel prossimo futuro. Si può supporre che nel giro di qualche settimana (due, tre?) sarà raggiunto un nuovo massimo dei contagi collegato al punto di massima diffusione del ceppo virale indiano. La situazione degli ospedali britannici è ancora ragionevolmente tranquilla, ma è in costante peggioramento. Auspicabilmente, ci aspettiamo che non si torni alla difficile situazione del gennaio scorso. Allora le vaccinazioni erano nella fase iniziale. Cinque mesi dopo, è considerevolmente aumentata la quota di cittadini britannici vaccinati ed anche se i vaccini non forniscono una protezione assoluta, certamente contribuiscono a ridurre drasticamente i danni sanitari.

In questo momento la Gran Bretagna è una sorta di osservata speciale perché anticipa una evoluzione della pandemia che potrebbe ripetersi tra breve in molti altri Paesi europei. I commentatori di tutta Europa si stanno dividendo - come al solito - tra ottimisti e pessimisti. Gli ottimisti sostengono che i contagi, anche se numerosi, sono quasi tutti asintomatici e non hanno prodotto un significativo aumento dei ricoveri e dei decessi. I pessimisti considerano l'aumento dei contagi come l'inizio di una nuova terribile ondata pandemica. Ci sono poi quelli (forse una minoranza) che, prima di prendere posizione, cercano di analizzare e capire i dati che provengono dalla Gran Bretagna. Se appartenete a questa terza categoria, qui di seguito troverete tutte le informazioni disponibili fino ad oggi. I dati sono stati tratti dal sito ufficiale del Governo britannico.

Partiamo dai contagi sul cui aumento non ci sono dubbi. Prima o poi la curva dovrebbe incominciare a piegare, ma - almeno per il momento - sembra che sia ancora nella fase di crescita esponenziale

Per capire meglio l'andamento dei dati ho provato a utilizzare un semplicissimo modello costituito da due curve esponenziali: una discendente che descrive l'andamento dei contagi prima dell'arrivo della variante indiana ed una crescente che descrive i contagi misurati nelle settimane più recenti. 

Le due curve esponenziali sono mostrate nel grafico seguente. Vi faccio notare che il grafico usa una scala verticale  logaritmica e quindi le curve esponenziali (linee tratteggiate grigia e rossa) vengono rappresentate come rette. La somma delle due curve esponenziali è rappresentata con la linea tratteggiata verde che, come vedete, descrive abbastanza bene i dati sperimentali:

Andamento dei nuovi contagi settimanali normalizzati rispetto ad un campione di 100 mila abitanti (punti verdi). La linea tratteggiata verde è un fit ottenuto come somma di due esponenziali: un esponenziale decrescente (linea grigia tratteggiata) che descrive la discesa dei contagi nel mese di aprile (prima che si diffondesse la variante indiana) ed un esponenziale crescente (linea rossa tratteggiata) che descrive l'andamento dei contagi durante le ultime settimane. Le due linee si incrociano il 9 maggio. Si noti che il grafico usa una scala verticale logaritmica e quindi le curve esponenziali vengono rappresentate come linee rette

Un'analisi simile può essere applicata al dato dei nuovi ricoveri ospedalieri. I dati relativi ai nuovi ricoveri sono comunicati con un certo ritardo (a causa soprattutto del tardivo trasferimento di dati da parte della Scozia). Il grafico che vedete qui sotto contiene una stima dei dati scozzesi degli ultimi tre giorni della settimana che si è conclusa lo scorso 27 giugno e pertanto potrebbe subire lievi modifiche quando questi dati saranno comunicati ufficialmente. 

Anche per i ricoveri si possono descrivere abbastanza bene i dati come somma di due esponenziali, uno decrescente ed uno crescente. Il punto d'incrocio tra le due curve esponenziali è spostato in avanti di alcuni giorni rispetto al punto di incrocio dei contagi. La cosa è ragionevole tenuto conto del tempo che può passare tra la scoperta del contagio e l'eventuale peggioramento che può portare al ricovero.

Andamento dei nuovi ricoveri settimanali normalizzati rispetto ad un campione di 100 mila abitanti (punti blu). La linea tratteggiata blu è un fit ottenuto come somma di due esponenziali: un esponenziale decrescente (linea grigia tratteggiata) che descrive la discesa dei contagi nel mese di aprile (prima che si diffondesse la variante indiana) ed un esponenziale crescente (linea rossa tratteggiata) che descrive l'andamento dei contagi durante le ultime settimane. Le due linee si incrociano il 15 maggio. Si noti che il grafico usa una scala verticale logaritmica e quindi le curve esponenziali vengono rappresentate come linee rette

Il dato sui nuovi ricoveri giornalieri in terapia intensiva non è disponibile, ma il numero di letti occupati da pazienti assistiti con il ventilatore polmonare è cresciuto dal valore minimo pari a circa 120 unità della seconda metà di maggio, fino ai quasi 300 posti occupati a fine giugno (erano circa 4.000 a fine gennaio 2021).

I dati sui decessi causa Covid avvenuti in Gran Bretagna sono rilasciati con grande ritardo. Guardando al dato di tutti i decessi (non solo quelli avvenuti 4 settimane dopo il contagio), l'ultima informazione disponibile si riferisce alla settimana che terminava lo scorso 18 giugno ed è ancora considerato come un dato provvisorio suscettibile di variazioni. Il dato settimanale (116 decessi) è superiore rispetto a quello della settimana che terminava lo scorso 11 giugno (93 decessi), ma si tratta comunque di livelli tra i più bassi tra quelli osservati dall'inizio della pandemia. Per confronto durante certe settimane del mese di aprile 2020 o del mese di gennaio 2021, il Regno Unito aveva contato più di 9.000 decessi settimanali. Un anno fa, il livello dei decessi sfiorava i 1.000 decessi settimanali.

Nel grafico seguente viene mostrato l'insieme dei dati relativi a nuovi contagi, nuovi ricoveri e decessi, con i relativi fit esponenziali. Per i decessi (punti neri) ho inserito soltanto l'esponenziale decrescente che descrive abbastanza bene l'andamento dei dati almeno fino alla fine del mese di maggio. Nel corso delle ultime settimane si osserva una sorta di plateau, ma non c'è ancora evidenza di una risalita dei decessi come si è visto per i ricoveri.

Andamento dei nuovi contagi (verdi), ricoveri (blu) e decessi (neri) con i relativi fit formati dalla somma di due esponenziali. Per il dato dei decessi il fit contiene solo l'esponenziale decrescente. Si nota che nel corso delle ultime settimane c'è stata una sostanziale stabilizzazione dei decessi, ma non c'è ancora evidenza di una crescita dovuta al recente aumento dei contagi.

In conclusione, c'è evidenza di un aumento dei ricoveri, inclusi quelli in terapia intensiva. Si osserva tuttavia che, nel corso delle ultime settimane, la curva blu si sta allontanando rispetto alla curva verde (vedi figura precedente). Se facciamo il rapporto tra i nuovi contagi ed i nuovi ricoveri (corrispondente appunto alla distanza tra la curva blu e la curva verde nel grafico semi-logaritmico mostrato in figura) si nota che tale parametro è quasi raddoppiato tra inizio aprile e la metà di giugno (ovvero, a parità di contagi, ci sono meno ricoveri).

Questo fatto dipende, almeno in parte, dalla dinamica della pandemia: ad aprile i contagi scendevano mentre ora salgono. Quando si calcola il rapporto tra nuovi contagi e nuovi ricoveri, bisognerebbe considerare i contagi antecedenti di circa una settimana rispetto alla data dei ricoveri. In tale modo si terrebbe conto del tempo medio che passa tra la scoperta della positività e l'eventuale ricovero.

Aldilà dell'aspetto puramente tecnico, ci potrebbe essere anche un sostanziale abbassamento dell'età media delle persone contagiate. É ragionevole supporre che - in questo momento - i giovani (scarsamente vaccinati) siano il bersaglio ideale della contagiosissima variante indiana, anche a causa della loro intensa attività sociale favorita dalla recente rimozione di gran parte delle misure di distanziamento precedentemente adottate in Gran Bretagna. Sappiamo però che i giovani hanno una ridottissima probabilità di contrarre forme gravi della Covid-19 e quindi difficilmente finiscono in ospedale. Per poter approfondire questo aspetto servirebbero dati disaggregati per età che io non sono riuscito a trovare.

Per quanto riguarda i decessi, gli ultimi dati disponibili (settimana terminata lo scorso 18 giugno) indicano un andamento stazionario. Solo nelle prossime settimane si potrà capire se tale andamento precede una possibile futura crescita oppure se - come tutti auspichiamo - il dato dei decessi è destinato a rimanere limitato nel tempo.


domenica 27 giugno 2021

Non ci facciamo mancare niente: adesso abbiamo anche la variante Delta Plus!

Alcune centinaia di sequenziamenti fatti in vari Paesi hanno evidenziato un nuovo ceppo virale che è stato denominato "Delta AY.1" (chiamato anche Delta Plus). Dal punto di vista tecnico si tratta di un virus che, oltre alle mutazioni  tipiche della variante B.1.617.2 (detta anche variante indiana o Delta) ha inglobato anche la mutazione K417N che è tipica della variante B.1.351 (detta anche sudafricana o Beta).

Che il virus muti continuamente fa parte della sua stessa natura e che questo possa accadere con una elevata frequenza non è certamente inaspettato, almeno fino a quando la circolazione virale continuerà ad essere molto elevata in varie parti del mondo.

La nuova variante Delta Plus ha generato un forte allarme anche se va subito detto che - al momento - non ci sono ancora evidenze che la nuova variante sia più contagiosa della variante Delta oppure riesca ad eludere con maggiore facilità la protezione indotta dai vaccini (o da un precedente contagio).

L'allarme parte dal timore che la variante Delta Plus sommi i ben noti problemi associati con le varianti Beta e Delta. Ambedue sono caratterizzate da una certa resistenza rispetto agli attuali vaccini, inoltre la variante Delta è particolarmente contagiosa. Dal punto di vista biologico non è detto che le caratteristiche della variante Delta Plus possano essere valutate sommando le caratteristiche  della variante Delta e di quella Beta. Le mutazioni presenti nelle diverse varianti influenzano il comportamento del virus a livello molecolare. Ma va anche detto che i processi di interazione che avvengono a livello molecolare sono molto complessi e non sono necessariamente additivi.

Per quanto riguarda le due varianti Beta e Delta che sono confluite nella nuova variante Delta Plus, vorrei ricordare che:

  • La variante Beta (sudafricana) è già presente nel nostro Paese da molti mesi, particolarmente in talune Regioni del Centro Italia. Malgrado sia decisamente più pericolosa della variante Alpha (inglese), non ha determinato situazioni estese di particolare gravità. Due dosi vaccinali (soprattutto con i vaccini ad mRNA) offrono una buona protezione dal contagio sintomatico ed una eccellente protezione dai contagi più gravi.
  • Un analogo discorso si può fare per la variante Delta purché - lo ripeto - si considerino solo le persone che hanno ricevuto la seconda dose vaccinale da almeno due settimane (i vaccinati con la sola prima dose hanno una scarsa protezione come dimostra l'alto livello dei contagi che c'è attualmente in Gran Bretagna).

Quindi -  a mio avviso - è giusto preoccuparsi e seguire l'evoluzione della situazione con grande attenzione, ma - almeno per il momento - non c'è alcuna evidenza che la variante Delta Plus possa diventare una sorta di Armageddon pandemico.

Alla fine la ricetta da utilizzare per fronteggiare il possibile arrivo di questo nuovo ceppo virale (e di quelli che purtroppo potrebbero seguire) è sempre la stessa: tracciare, sequenziare, isolare i focolai e vaccinare

Senza dimenticare che i Paesi ricchi non possono illudersi di riuscire a salvarsi da soli e finchè i vaccini non saranno ampiamente disponibili per tutti (ma proprio tutti, inclusi gli abitanti dei Paesi più poveri) ci sarà sempre il problema della possibile circolazione di nuove pericolose varianti virali.

B.1.617.2
B.1.617.2
B.1.617.2

sabato 26 giugno 2021

Inutile perdere tempo: meglio fare i richiami senza ritardi

Lazio e Liguria hanno già deciso di tornare a fare il richiamo dei vaccini ad mRNA nei tempi canonici (3 settimane per Pfizer-BioNTech e 4 per Moderna). Altre Regioni come Lombardia e Friuli V.G. lasciano liberi i cittadini di programmare la data del richiamo in modo flessibile, anche per evitare disguidi a causa della concomitanza delle vacanze.

L'idea di estendere il tempo tra la prima e la seconda dose dei vaccini ad mRNA non mi è mai sembrata particolarmente brillante, soprattutto per come è stata attuata in Italia. Tardivamente, perché avrebbe avuto forse senso all'inizio della  campagna vaccinale ed in modo improvvisato (basta pensare ai ritardi che ha prodotto nella campagna vaccinale in Trentino dove si rimandavano le seconde dosi degli anziani, ma si tenevano i vaccini in frigorifero).

L'arrivo della variante indiana ha platealmente dimostrato che una sola dose vaccinale non basta per fornire un adeguato livello di protezione e questo ha convinto molte Regioni a riconsiderare le scelte fin qui fatte.  

Nel frattempo, il Ministero della Salute comunica che "vi sono evidenze che quanti hanno ricevuto solo la prima dose di una vaccinazione che prevede la somministrazione di due dosi per il completamento del ciclo vaccinale sono meno protetti contro l'infezione con la variante delta rispetto all'infezione da altre varianti, indipendentemente dal tipo di vaccino somministrato". Mi domando se non sarebbe il caso che il Ministero prendesse una posizione più chiara e cancellasse definitivamente la disposizione (ormai chiaramente priva di senso) che aveva autorizzato il ritardo nella somministrazione delle seconde dosi vaccinali.

Israele reintroduce l'obbligo della mascherina nei luoghi chiusi

Con quasi il 60% di popolazione completamente vaccinata (con Pfizer-BioNTech) Israele si distingue non solo per l'alto livello di vaccinazione, ma anche per l'attenta gestione della pandemia. 

Andamento delle vaccinazioni in alcuni Paesi. Tratto da Our World in Data

Come molti altri Paesi, attualmente Israele sta fronteggiando una crescita di contagi legata all'importazione dall'estero del nuovo ceppo virale noto come variante indiana (delta). In particolare, i nuovi contagi giornalieri (che prima dell'arrivo della variante indiana erano poche decine) hanno improvvisamente superato quota 100 e mostrano una ulteriore tendenza a crescere. 
 
Ricordo che Israele ha circa 9 milioni di abitanti e quindi il livello di 100 contagi che ha  fatto scattare l'allarme corrisponderebbe, in proporzione, a circa 700 contagi giornalieri per l'Italia, un livello leggermente inferiore rispetto alla media dei contagi attuali del Bel Paese. Il che praticamente significa che, se anche in Italia fosse in atto un fenomeno simile a quello che ha allarmato Israele, non saremmo ancora in grado di riconoscerlo a causa della sovrapposizione dei contagi crescenti dovuti alla variante indiana (delta) con la coda dei contagi dovuti alla vecchia variante inglese (che, a differenza dell'Italia, in Israele era stata quasi azzerata).

Per fronteggiare la situazione, Israele ha reintrodotto l'obbligo di indossare la mascherina nei luoghi chiusi. Inoltre alcune località dove sono stati individuati focolai particolarmente intensi sono state trasformate in "zona rossa", mentre altre sono state messe in stato di pre-allarme. 

Al momento, il Governo israeliano ha sul tavolo due opzioni: a) reintrodurre misure di distanziamento sociale anche al di fuori dei focolai individuati come zona rossa oppure b) attendere, in attesa di vedere se l'aumento dei contagi sarà accompagnato da un aumento dei ricoveri in terapia intensiva e dei decessi.

Tenuto conto dell'alto livello di vaccinazione già raggiunto, il Governo israeliano sembra propenso ad adottare la soluzione b, anche se imporrà fin da subito nuove restrizioni sui viaggi da e per l'estero (incluso l'aumento delle multe o l'uso del braccialetto elettronico per evitare che qualche viaggiatore di ritorno dall'estero non rispetti l'obbligo di quarantena).

Insomma un atteggiamento attento e vigile, dove le scelte politiche sono basate sul monitoraggio accurato della situazione e sul continuo aggiornamento dei dati epidemiologici. Nessuno può fare miracoli di fronte ad un problema tanto complesso e sfuggente come quello legato alla pandemia. Ma la combinazione di monitoraggio, prevenzione e pianificazione è certamente un approccio migliore rispetto all'italico "io speriamo che me la cavo".

venerdì 25 giugno 2021

L'impatto della pandemia sull'aspettativa di vita alla nascita negli Stati Uniti

Un recente studio ha analizzato la riduzione dell'aspettativa di vita alla nascita che è stato registrato negli Stati Uniti tra il 2018 e la fine del 2020 a causa della pandemia di Covid-19. Lo studio è particolarmente interessante perché analizza il dato disaggregandolo rispetto ai tre principali gruppi etnici presenti negli Stati Uniti (ispanici, bianchi (non ispanici) e neri (non ispanici)) e lo confronta rispetto alla media di altri 16 Paesi a reddito alto (Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Israele, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Sud Corea, Portogallo, Spagna, Svezia, Svizzera, Taiwan e Gran Bretagna). I dati di Australia, Canada, Germania, Italia e Giappone non sono stati inclusi nello studio perché gli Autori non sono riusciti ad ottenere i dati completi relativi alla mortalità del 2020.

Il risultato dell'analisi è riassunto nella figura seguente:

Adattato da BMJ

La prima evidenza è quella che l'aspettativa di vita alla nascita in USA è rimasta sostanzialmente stabile durante il decennio precedente alla pandemia, a differenza di quanto è avvenuto, almeno come media, nei 16 Paesi di riferimento. In generale l'aspettativa di vita è stata maggiore per la comunità ispanica e più bassa per i neri. Il dato relativo ai bianchi (non ispanici) è intermedio e coincide sostanzialmente con la media nazionale. Già prima della pandemia si notava una tendenza all'aumento del gap che separa l'aspettativa di vita degli Stati Uniti (dato mediato su tutte le componenti etniche) rispetto alla media dei 16 Paesi di riferimento.

L'analisi è stata fatta considerando non solo i decessi attribuiti ufficialmente alla Covid-19, ma i dati generali relativi alla mortalità registrata negli Stati Uniti e nei 16 Paesi di riferimento.

Secondo gli Autori, il forte incremento di morti premature registrato negli Stati Uniti in occasione della pandemia è dovuto alle decisioni non coordinate assunte a livello dei singoli Stati, così come dall'ingerenza della politica che ha portato a decisioni basate più sulle ideologie che su dati scientifici oggettivi. Il dato USA è comunque molto disomogeneo: per le comunità ispanica e nera la riduzione dell'aspettativa di vita è stata decisamente più marcata rispetto a quella dei cittadini bianchi (non ispanici). Molto probabilmente questo fatto è legato a fattori di natura socio-economica. Banalmente, rispettare le misure del distanziamento sociale può essere un privilegio per ricchi, soprattutto quando le restrizioni vanno ad incidere pesantemente sul reddito personale. Senza contare che negli Stati Uniti vige un sistema sanitario molto diverso rispetto all'assistenza di tipo universale che è tipico dell'Europa. In USA la qualità delle cure può dipendere fortemente dalle condizioni economiche del paziente.

Il dato USA è decisamente peggiore rispetto alla media dei 16 Paesi di riferimento i quali hanno mostrato una riduzione mediamente più ridotta della aspettativa di vita alla nascita. Vale la pena ricordare che tutti i Paesi inclusi nella lista di riferimento sono caratterizzati da condizioni economiche non distanti rispetto a quelle degli Stati Uniti ed hanno governi democraticamente eletti. Ragionevolmente, possiamo aspettarci che i dati statistici di questi Paesi non siano stati alterati da ingerenze politiche volte a far apparire una situazione pandemica meno grave rispetto a quella reale.



giovedì 24 giugno 2021

L'ospedale di Hämeenlinna e la variante indiana: una storia da manuale

La storia non è recentissima perché risale allo scorso mese di maggio ed è stata riportata dalla stampa finlandese all'inizio del mese di giugno, ma ha suscitato molta apprensione tra le Autorità sanitarie internazionali perché è emblematica di come la variante indiana (delta) possa diffondersi anche in ambienti dove una larga parte delle persone sia stata vaccinata (almeno con una singola dose). L'episodio è stato citato anche in una nota mandata dal Ministero della Salute italiano alle Regioni/PPAA per sollecitarle ad un maggiore controllo sulla presenza della nuova variante virale.

La storia si svolge nell'ospedale universitario di Hämeenlinna nel sud della Finlandia ed inizia con il caso di un paziente che aveva contratto l'infezione dovuta alla variante indiana tramite un contatto stretto che, a sua volta, era stato contagiato all'estero. Da qui è iniziata la catena di contagio interna all'ospedale che si è allargata inizialmente tramite contagi asintomatici del personale sanitario. Alla fine sono stati individuati 99 contagi suddivisi tra il personale ospedaliero (42 contagi) e i pazienti ricoverati per patologie non-Covid (57 contagi). Complessivamente, 17 dei pazienti contagiati sono deceduti, anche se  la Covid-19 non è stata la causa determinante di tutti i decessi.

Fin qui sembra la "normale" storia di un focolaio in un ospedale purtroppo simile a tante altre storie che abbiamo visto nel corso di questa lunga pandemia. Le cose appaiono sotto una luce diversa se andiamo a vedere lo stato vaccinale delle persone contagiate. 

Tra i 57 pazienti infettati, 41 avevano ricevuto almeno una dose vaccinale. Tra i 17 pazienti deceduti, 1 aveva ricevuto ambedue le dosi, 11 avevano ricevuto una sola dose ed i rimanenti 5 non erano ancora stati vaccinati. A dimostrazione - ammesso che ce ne sia ancora bisogno - che una sola dose vaccinale serve a poco quando si ha a che fare con la variante indiana

L'età dei pazienti deceduti andava da 60 fino a 100 anni, con una media pari ad 80 anni. Parliamo quindi di persone potenzialmente fragili e certamente il fatto che fossero ricoverate in ospedale a causa di altre patologie ha aumentato il loro livello di rischio. Da una analisi delle cartelle cliniche, le Autorità sanitarie finlandesi hanno dedotto che il contagio con SARS-CoV-2 avvenuto in ospedale è stato una causa determinante per circa 3/4 dei decessi.

Tra i 42 componenti del personale ospedaliero che sono risultati positivi al virus, 17 avevano ricevuto ambedue le dosi vaccinali e 2 solo la prima dose. Le rimanenti 23 persone non vaccinate appartenevano a personale che non aveva contatti diretti con i pazienti oppure erano studenti di medicina che frequentavano l'ospedale per effettuare i loro tirocini (il 70% degli studenti è stato contagiato). Per tutto il personale sanitario vaccinato, i sintomi sono stati di livello basso e, in molti casi, completamente assenti. 

L'altra lezione che possiamo imparare è che - almeno quando abbiamo a che fare con la variante indiana - i vaccini non forniscono una copertura "sterilizzante" ovvero non impediscono di essere contagiati in forma asintomatica e quindi non bloccano la catena di trasmissione del contagio. Da qui segue che forse andrebbero riviste certe frettolose decisioni che - anche nel nostro piccolo Trentino - hanno bloccato i controlli periodici con tampone molecolare del personale vaccinato che lavora a stretto contatto con persone ad alto rischio negli ospedali e nelle RSA.



Variante indiana: come vanno le cose in Gran Bretagna?

Durante questo primo scorcio del 2021, malgrado la Brexit e la conseguente tendenza all'isolazionismo che ne sarebbe dovuta conseguire, la Gran Bretagna ha pesantemente condizionato lo sviluppo della pandemia nel resto d'Europa. 

Tra la fine del 2020 e l'inizio del 2021 c'è stata la diffusione della variante originariamente apparsa nella regione inglese del Kent (variante inglese o alpha secondo la notazione "politicamente corretta" adottata dall'OMS). Quando gli effetti dell'ondata pandemica associata alla variante inglese si sono attenuati, la Gran Bretagna ha fatto da sponda con l'India ed è diventata il punto d'approdo europeo della nuova variante indiana (delta). Secondo le più recenti stime di ECDC la variante indiana - più contagiosa rispetto alla variante inglese - diventerà dominante in tutta Europa entro al fine del mese di agosto.

La variante indiana ha fatto rapidamente aumentare il numero di contagi in tutta la Gran Bretagna. Il dato relativo lo vedete qui sotto:

Nuovi contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Elaborato su dati gov.uk

Come si vede dal grafico, la Gran Bretagna (poco più di 66 milioni di abitanti) a inizio aprile era scesa sotto la soglia di 50 nuovi contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Il livello dei nuovi contagi si è poi stabilizzato intorno a quota 20 (più o meno il livello attuale italiano), ma nel mese di giugno ha mostrato una rapida risalita che ancora non presenta segni di rallentamento. Attualmente il livello dei contagi è circa 5 volte quello osservato nel punto di minimo a inizio maggio.

Secondo le informazioni diffuse dalle Autorità sanitarie inglese, una singola dose vaccinale offre una copertura molto scarsa rispetto al contagio sintomatico e malgrado l'alto tasso di vaccinazione raggiunto dalla Gran Bretagna, il nuovo ceppo virale indiano sembra in grado di diffondersi con grande rapidità. L'allentamento delle misure di distanziamento ha certamente contribuito ad aumentare il numero di contagi e l'arrivo dell'estate non è bastato per contenere la nuova ondata pandemica.

Anche se la variante indiana sembra "bucare i vaccini", in realtà - almeno per chi ha ricevuto ambedue le dosi vaccinali - c'è comunque un buon livello di protezione rispetto alle forme di contagio più gravi. A questo si aggiunge che la maggioranza dei contagiati sono giovani o giovanissimi che non hanno ricevuto neppure una dose di vaccino, ma corrono comunque un rischio trascurabile di contrarre forme gravi di Covid-19. Osservando l'andamento dei nuovi ricoveri nei reparti Covid della Gran Bretagna, si nota un aumento significativo che tuttavia - almeno per il momento - non è così grave come quello osservato per i nuovi contagi. I nuovi ricoveri sono attualmente circa 2 volte quelli osservati nel punto di minimo a metà maggio.

Nuovi ricoveri settimanali nei reparti Covid UK per 100 mila abitanti. Elaborato su dati gov.uk

Ovviamente va messo nel conto che c'è un certo ritardo temporale tra la data del contagio e quella dell'eventuale ricovero.

Per le terapie intensive non è disponibile il dato relativo ai nuovi ricoveri settimanali, ma disponiamo solo del dato sui posti letto occupati. Va anche detto che il dato britannico tiene conto solo dei pazienti che risultano collegati a sistemi di ventilazione forzata e quindi esclude le persone che rimangono in terapia intensiva a causa dei gravi effetti a medio-lungo termine della malattia, pur non essendo più collegati al respiratore. 

Posti letto occupati nei reparti Covid di terapia intensiva (solo pazienti collegati alla ventilazione forzata). Elaborato su dati gov.uk

I ricoveri in terapia intensiva attualmente sono quasi raddoppiati rispetto al minimo osservato nella seconda metà di maggio. Per confronto, il dato attuale dell'Italia (60 milioni di abitanti contro i 66 milioni della Gran Bretagna) è pari a circa 350 ricoverati (anche se il criterio di stima dei posti letto occupati potrebbe non essere completamente sovrapponibile).

Un discorso a parte va fatto per i decessi causati dalla pandemia. In realtà, anche all'interno della stessa Gran Bretagna, i diversi Stati usano criteri diversi per il conteggio delle vittime e quindi non è semplice fare confronti. In particolare, i numeri che spesso troviamo sulla stampa si riferiscono solo a coloro che sono deceduti entro 4 settimane dal momento del primo tampone positivo. Un criterio un po' bizzarro perché esclude dalle statistiche coloro che sono deceduti dopo avere lottato a lungo contro la malattia (circa il 20% dei decessi misurati dall'inizio della pandemia). Comunque, andando a vedere i dati del Sistema sanitario britannico è possibile risalire al numero completo dei decessi Covid.

L'andamento dei decessi di coloro che risultano deceduti causa Covid (anche oltre 4 settimane dopo il contagio) è riportato qui sotto:

Decessi causa Covid in UK per 100 mila abitanti. Elaborato su dati gov.uk

Attenzione: va notato che l'ultimo dato disponibile sui decessi si riferisce alla settimana che si concludeva lo scorso 11 giugno e quindi non può ancora comprendere l'eventuale incremento dei decessi associato al consistente aumento dei contagi che si è verificato a partire dall'inizio del mese di giugno e che potrebbe avvenire con 2-3 settimane di ritardo rispetto all'aumento dei contagi.

L'ultimo dato disponibile sui decessi è in assoluto tra i più bassi registrato dall'inizio della pandemia, decisamente inferiore rispetto ai dati che si vedevano durante l'estate 2020. Per confronto, il dato dei decessi registrati attualmente in Italia, pur essendo in costante diminuzione, si attesta ancora intorno al livello di 0,35 decessi settimanali per ogni 100 mila abitanti, quasi doppio rispetto a quello britannico.

I dati dei tre grafici precedenti sono riassunti in questa figura dove, grazie alla scala logaritmica utilizzata per l'asse verticale, è possibile confrontare l'andamento generale di contagi, ricoveri e decessi. Si vede bene come ci sia una progressiva divaricazione delle tre curve che, se confermata nel corso delle prossime 2 - 3 settimane, sarebbe una chiara indicazione del fatto che i vaccini, pur offrendo una copertura meno efficace rispetto ai contagi provocati dalla variante indiana, attenuano comunque i danni più gravi della pandemia.

In conclusione, l'avvento della variante indiana (in combinazione con una sostanziale riduzione delle limitazioni ai contatti interpersonali) ha generato in Gran Bretagna una nuova ondata di contagi che ha prodotto anche un significativo aumento dei ricoveri ospedalieri. Ci vorranno ancora almeno 2-3 settimane per poter trarre conclusioni definitive, ma - almeno per il momento - non si vede ancora una  crescita dei decessi proporzionale all'aumento dei contagi. 

Pur con tutte le cautele del caso, si può comunque ipotizzare che i vaccini - anche se meno efficaci nei confronti della variante indiana - stiano facendo un buon lavoro, almeno rispetto alle forme più gravi - se non addirittura letali - della Covid-19. Conclusioni più accurate si potranno trarre entro la fine del prossimo mese di luglio, soprattutto quando saranno disponibili dati disaggregati rispetto all'età ed allo stato vaccinale delle persone contagiate.

Un'ultima considerazione riguarda l'Italia che ormai sta fronteggiando l'arrivo della variante indiana, anche se la campagna vaccinale italiana è meno avanzata rispetto a quella della Gran Bretagna: 53% contro il 64% per la prima dose, 27% contro il 47% per la vaccinazione completa (dati aggiornati al 22 giugno). Il grado di copertura italiano (soprattutto per le vaccinazioni complete) è decisamente inferiore rispetto a quello britannico e quindi i danni sanitari provocati dalla variante indiana in Italia potrebbero essere decisamente più gravi. Per questo è importante non perdere ulteriore tempo e vaccinare con due dosi, il più rapidamente possibile, soprattutto le persone più fragili.



martedì 22 giugno 2021

Le trappole della statistica: i vaccini e la "letalità sociale" della Covid-19

Sai ched' e' la statistica? E' 'na cosa
che serve pe' fa' un conto in generale
de la gente che nasce, che sta male,
che more, che va in carcere e che sposa.

Ma pe' me la statistica curiosa
e' dove c'entra la percentuale,
pe' via che, li', la media è sempre eguale
puro co' la persona bisognosa.

Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all' anno:

e, se nun entra ne le spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perche' c'e' un antro che ne magna due.

Trilussa (Carlo Alberto Salustri), 1871-1950

Il sito di ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale con sede a Milano) ha ospitato una serie di interessanti interventi del dott. Matteo Villa che avevo già segnalato in precedenti post. Oggi il Corriere della Sera dedica un articolo ad una delle analisi più recenti del dott. Villa dedicata a quella che viene definita la "letalità sociale" della Covid-19

Ricordo che il termine letalità si riferisce alla probabilità di decesso che c'è per una persona che sia stata infettata dal virus SARS-CoV-2. La letalità è trascurabile sotto i 40 anni d'età e cresce rapidamente con l'aumento dell'età e a causa della presenza di altre patologie. Mediamente la letalità della Covid-19 è circa 10 volte superiore rispetto a quella di una normale influenza.

Andamento della "letalità sociale" associato all'avanzamento della campagna vaccinale in Italia. Le due curve sono calcolate sulla base di ipotesi diverse rispetto al grado di protezione offerto da una singola o da una doppia dose. La linea tratteggiata indica il livello di letalità atteso per una normale influenza. Tratto da ISPI

Il termine "letalità sociale" è piuttosto ambiguo e va spiegato. In pratica, si intende il livello della letalità media che ci aspettiamo per la popolazione italiana. In pratica è la storia del "pollo a testa"  di Trilussa, ma non dobbiamo mai dimenticare che se due persone con caratteristiche simili (età e condizioni generali di salute), una vaccinata ed una non vaccinata, vengono infettate, la persona non vaccinata avrà una probabilità decisamente più elevata di contrarre forme più gravi di Covid-19, anche letali. 

Per le persone non vaccinate la letalità della Covid-19 è rimasta esattamente la stessa che c'era prima dell'inizio della campagna vaccinale (a parte le eventuali variazioni legate alla diffusione di nuove varianti virali). Quando facciamo la media per ottenere la cosiddetta "letalità sociale", si osserva un risultato che decresce con l'aumentare della frazione di popolazione vaccinata.

Ovviamente parliamo di stime basate su un modello matematico che tiene conto delle conoscenze fin qui disponibili. In particolare, la diffusione di nuove varianti più aggressive e più resistenti ai vaccini potrebbe modificare - in peggio - la situazione.



lunedì 21 giugno 2021

Quanto è diffusa la variante indiana in Italia?

In assenza di dati affidabili sul sequenziamento virale, in Italia si rincorrono i numeri più diversi rispetto alla effettiva circolazione della variante indiana (delta). Andiamo da "circa 1%" che viene  ripetuto dai burocrati ministeriali sulla base di dati tanto ufficiali quanto irrimediabilmente superati, fino a "più del 20%" sparato dal Financial Times (Londra). Quale sia effettivamente il livello attuale nessuno lo può dire perché le mappature genomiche vengono fatte in modo saltuario e sono raccolte su base sostanzialmente volontaria.

Stime della presenza della variante indiana (delta) in vari Paesi secondo il Financial Times. Il dato italiano è evidenziato in verde.

In Italia manca il necessario coordinamento delle tante competenze che pure esistono, così come mancano i finanziamenti minimi necessari per coprire i costi dei sequenziamenti. Si tratta di cifre irrisorie se le confrontiamo con i costi economici di un solo giorno di lockdown, ma sembra che nessuno sia veramente interessato a fare le cose nel modo migliore. Più volte è stata annunciata la partenza di un Consorzio che dovrebbe favorire la mappatura genomica del virus in Italia, ma - almeno per il momento - siamo fermi ai proclami e alle "photo opportunity".

Forse si teme che, se i dati confermassero un effettivo aumento  della circolazione della variante indiana, qualcuno potrebbe rinunciare alle vacanze o ci potrebbero essere ritardi nella riapertura delle discoteche. Allora, meglio far finta di niente e sperare che lo "stellone d'Italia" ci protegga! L'unico provvedimento preso da alcune Regioni è stato quello di contrarre i tempi di somministrazione tra la prima e la seconda dose dei vaccini, tenuto conto della limitata protezione dal contagio offerta da una singola dose.

In attesa che il famoso Consorzio incominci a funzionare, il Ministero della Salute ha annunciato l'avvio di una nuova indagine a campione definita come "rapida", ma che tale appare solo rispetto ai tempi da bradipo della burocrazia ministeriale. I campioni dovrebbero essere solo 777 (un numero irrisorio rispetto ai campioni che vengono trattati settimanalmente in Gran Bretagna), opportunamente distribuiti tra le diverse Regioni/PPAA. La data ultima per inviare i dati al Ministero è il prossimo 1 luglio. 

Ammesso e non concesso che le diverse Regioni/PPAA rispettino le indicazioni ministeriali, ad inizio luglio forse sapremo qual è la situazione attuale. Con calma, mi raccomando!

domenica 20 giugno 2021

Il Portogallo in allarme per la diffusione della variante indiana (e cosa possiamo imparare per l'Italia)

La situazione della pandemia in Portogallo è particolarmente importante a causa degli stretti contatti che storicamente esistono tra il Paese lusitano e l'Inghilterra. Nello scorso mese di gennaio il Portogallo era stato tra i primi Paesi europei ad assere raggiunto dalla cosiddetta variante inglese (alpha) apparsa originariamente in Inghilterra. Per questo motivo rappresenta una sorta di "cartina al tornasole" per capire se e quando si possa verificare un analogo processo di trasferimento che coinvolga la nuova variante indiana (delta) che ormai è diventata dominante in Inghilterra.

Il Portogallo è stato uno dei pochi Paesi per i quali le Autorità sanitarie britanniche avevano tolto le limitazioni ai viaggi turistici. Tali limitazioni  sono state improvvisamente ripristinate lo scorso 4 giugno, generando non pochi problemi ai numerosi turisti inglesi che si trovavano sul territorio portoghese.

Nel corso degli ultimi giorni il Portogallo (poco più di 10 milioni di abitanti) ha osservato una forte crescita dei contagi: durante l'ultima settimana la media dei nuovi contagi ha superato i 1000 casi giornalieri, circa 3 volte il minimo osservato durante la prima settimana di maggio. L'aumento dei contagi è stato particolarmente importante nella zona intorno a Lisbona. Qui oltre il 60% dei nuovi contagi è costituito dalla variante indiana (delta). Non è provato che il picco di nuovi contagi sia dovuto ad una importazione diretta dall'Inghilterra, ma l'ipotesi è molto verosimile.

Per il momento a Lisbona non si registra un particolare incremento del carico di lavoro degli ospedali, ma le Autorità sanitarie portoghesi sono giustamente allarmate e seguono l'evoluzione della situazione con grande attenzione. Attualmente la campagna vaccinale del Portogallo ha raggiunto numeri leggermente inferiori rispetto a quelli italiani: il 42% dei cittadini ha ottenuto almeno una dose vaccinale, mentre il 25% ha completato le vaccinazioni. 

A Lisbona è stato potenziato il servizio di vaccinazione in modo da garantirne il funzionamento 7 giorni alla settimana, dalle 8 di mattina fino alle 10 di sera. La speranza è quella di aumentare la percentuale di popolazione vaccinata in modo da contrastare la circolazione della nuova variante, riducendo soprattutto i possibili danni sanitari.

Sarà interessante seguire l'evoluzione della situazione portoghese, anche per avere indicazioni su cosa potrebbe succedere in Italia. I viaggi all'estero degli italiani e l'arrivo di turisti stranieri espongono anche il nostro Paese a seri rischi di importazione di nuove varianti virali. In realtà la variante indiana in Italia c'è già, anche se non la cerchiamo adeguatamente. Fortunatamente, almeno per il momento, si tratta di focolai circoscritti che non hanno ancora inciso significativamente sulla curva complessiva dei contagi.

Secondo alcuni, il nostro Paese potrebbe trovarsi ad affrontare un nuovo picco di contagi legato alla diffusione della variante indiana entro 6-8 settimane da oggi. Si tratta di ipotesi basate sull'idea che si ripeta quanto è successo con la variante inglese all'inizio del 2021, ma non è detto che l'analogia sia valida. Comunque, se fosse effettivamente così, 6-8 settimane sarebbero fondamentali per somministrare almeno 25 milioni di dosi vaccinali che potrebbero migliorare sensibilmente il livello di immunità raggiunto dalla popolazione italiana. Per questo è importante che le operazioni vaccinali procedano il più speditamente possibile.

sabato 19 giugno 2021

Il vaccino di "libera scelta"

Continua la "babele informativa" che accompagna la campagna vaccinale italiana. Le ultime notizie riguardano la seconda dose da somministrare agli under-60 che hanno ricevuto, come prima dose, il vaccino AstraZeneca. La maggior parte di loro saranno ben contenti di fare, come seconda dose, un vaccino ad mRNA, ma c'è comunque una minoranza che è rimasta disorientata dalle informazioni contrastanti che sono pervenute da parte degli esperti e preferirebbe continuare la vaccinazione così come era stata originariamente programmata. 

Per evitare il rischio che molti di loro rinuncino alla seconda dose, il Ministero della Salute ha dovuto precipitosamente cambiare le sue recentissime disposizioni sulla vaccinazione eterologa, introducendo la possibilità che chi lo desidera possa - dopo averne parlato con un medico - continuare con il vaccino AstraZeneca. In pratica, l'Italia si è adeguata al formato introdotto oltre un mese fa in Germania che è quello che trova il miglior compromesso tra la tutela della salute pubblica ed il rispetto della volontà dei cittadini.

Anche per l'altro vaccino a vettore virale (Johnson & Johnson) ci sono importanti novità. Se ne erano dimenticati quando avevano chiarito che AstraZeneca non dovesse essere somministrato sotto i 60 anni. Poi hanno corretto le disposizioni, aggiungendo anche J&J ai vaccini riservati agli over-60. Oggi hanno cambiato nuovamente idea: "previo parere del Comitato etico, il vaccino monodose si potrà somministrare anche sotto i 60-anni a quelle categorie "border-line" che sono difficili da raggiungere". Insomma se sei un "giovane senza fissa dimora" ti becchi il monodose J&J, mentre i tuoi coetanei "normali" hanno diritto a ricevere due dosi di un vaccino ad mRNA. Il richiamo al parere del Comitato etico (organo che esiste all'interno delle singole Aziende sanitarie ed esprime pareri su questioni legate a vari temi tra cui anche l'utilizzo di farmaci sperimentali) sembra una classica foglia di fico che rimanda ad altri una decisione scomoda. Possiamo dire che "se una rara trombosi si porta via un giovane senza fissa dimora il problema è meno grave?". O forse diventa meno grave solo perché non se accorgerebbe nessuno?

C'è poi il problema dei milioni di cittadini over-60 non ancora vaccinati che, pur non essendo irriducibili no-vax, sono ancora incerti sull'opportunità di fare il vaccino. Il clamore mediatico associato alla vicenda dei vaccini a vettore virale (con il susseguirsi di indicazioni contrastanti da parte delle Autorità sanitarie) ha certamente contribuito ad accrescere la diffidenza ed il calo attuale dei contagi potrebbe convincerli definitivamente a non vaccinarsi.

Oggi questi cittadini over-60 non vaccinati si trovano in un cul-de-sac: se decidono di accedere al vaccino, la scelta per loro diventa obbligatoriamente AstraZeneca di cui abbiamo i frigoriferi pieni. Ormai AstraZeneca si è fatto una pessima fama e molti ultra sessantenni lo rifiutano. Poco importa che i medici spieghino che sopra i 60 anni non ci sono rischi di un aumento delle rare forme di trombosi associati alla somministrazione di vaccini a vettore virale.

Imporre i vaccini a vettore virale agli ultra sessantenni fa aumentare il rischio che molti di loro rinuncino a farsi vaccinare. Tanto vale, lasciare AstraZeneca in frigorifero e somministrare, se lo desiderano, i vaccini a mRNA anche a coloro che hanno più di 60 anni.

Qualcuno, alla fine di questa pandemia, scriverà la storia della campagna vaccinale in Italia e magari calcolerà anche quale effetto abbia prodotto in termini di aumento dei cittadini no-vax

Nel frattempo, se non vogliamo che certe idee dilaghino, sarà bene garantire a tutti i cittadini il vaccino di "libera scelta". Si può discutere a lungo sulle diverse strategie vaccinali, ma - almeno per le persone sopra i 40 anni - il peggiore di tutti i vaccini è senz'altro il non-vaccino.


La variante indiana sta diventando il ceppo dominante anche in Russia

Dopo aver sovrastato la precedente variante inglese (alpha) nella sua stessa Patria d'origine, la variante indiana (delta) si appresta a diventare il ceppo dominante anche in Russia (144 milioni di abitanti). La diffusione della variante indiana in Russia è stata accompagnata da un vistoso incremento del numero dei contagi come si vede bene dal grafico mostrato qui di seguito:

 

Andamento dei nuovi contagi in Russia. Nel corso degli ultimi giorni si nota una forte crescita associata alla diffusione della variante indiana. Tratto da: JHU CSSE COVID-19 Data

Circa la metà dei nuovi contagi sono stati segnalati nella zona intorno a Mosca, dove il ceppo indiano è ormai largamente dominante. Potrebbe essere il segnale che la nuova variante non si è ancora diffusa in modo massiccio nel resto del vasto territorio russo, oppure - più banalmente - che a livello territoriale si registrano diverse capacità nella individuazione dei contagi.

Benché la Russia abbia mandato (o promesso) vaccini a mezzo mondo (San Marino incluso), il livello delle vaccinazioni fatte fino ad oggi in Russia è piuttosto basso. Secondo Our World in Data, solo il 13% dei cittadini russi avrebbe ricevuto almeno una dose vaccinale ed il 10% avrebbe completato la vaccinazione. Sembra che i cittadini russi siano piuttosto diffidenti e riluttanti rispetto all'idea di vaccinarsi. Probabilmente c'è anche un problema di disponibilità dei vaccini legato alla limitata capacità produttiva di cui dispone la Russia. 

L'andamento dei dati ufficiali relativi ai decessi Covid in Russia (vedi nota in fondo a questo post) non mostra - almeno per il momento - una crescita simile a quella mostrata dai contagi. Va detto tuttavia che il dato dei decessi è cambiato poco durante il corso del 2021 e potrebbe essere sottostimato:

Andamento dei decessi Covid in Russia.  Tratto da: JHU CSSE COVID-19 Data

Nota:

Secondo i dati ufficiali, il bilancio nazionale delle vittime per Covid in Russia, dall'inizio della pandemia fino ad oggi, ammonta a poco meno di 130 mila casi. Diverso il conteggio dell’Agenzia federale di statistica che stima 270 mila morti legate al Covid-19 da aprile 2020 ad aprile 2021.

Serve una terza dose vaccinale? Sì, almeno per alcune categorie di persone come i trapiantati

Uno studio sviluppato negli Stati Uniti ha analizzato la reazione al vaccino in un gruppo di persone che avevano ricevuto in passato (da 2 a 10 anni fa) il trapianto di un organo solido (cuore, polmone, rene). Per ridurre il rischio di rigetto queste persone devono assumere farmaci che attenuano la risposta del sistema immunitario. Come conseguenza diretta, questi pazienti offrono una risposta generalmente ridotta rispetto ai vaccini.

Il fatto è ben noto ed è stato confermato anche per le vaccinazioni anti-Covid. Dopo aver ricevuto entrambe le dosi di un vaccino ad mRNA, il livello di anticorpi trovato nel sangue dei pazienti trapiantati era decisamente inferiore rispetto alla media delle persone non trattate con farmaci immuno-soppressivi.  Solo il 57% di loro aveva raggiunto un livello di anticorpi adeguato. I pazienti con risposta anticorpale ridotta sono stati sottoposti ad una terza dose e questa ha prodotto un sostanziale miglioramento della situazione.

Lo studio ha riguardato un numero limitato di pazienti (30 persone) e perciò ha fornito dati che non possano essere considerati di elevato valore statistico. Possiamo però concludere che "per le persone immuno-depresse la somministrazione di una terza dose vaccinale può essere considerata una opzione da valutare attentamente".

Il risultato non può essere generalizzato. Il problema di una terza dose vaccinale si porrà eventualmente per tutti quando ci sarà l'evidenza che l'effetto protettivo del vaccino sia calato in modo significativo. Per evidenti problemi di tempo, oggi non abbiamo informazioni valide oltre 6 - 9 mesi rispetto alla data di completamento del ciclo vaccinale. Per il momento non c'è ancora evidenza di una riduzione del livello di protezione dei vaccini associato al trascorrere del tempo. Se e quando ci sarà, si porrà il problema di fare una dose di richiamo per tutti.

L'opzione di una terza dose vaccinale potrebbe essere presa in seria considerazione se si dovessero affermare ceppi virali molto diversi rispetto a quello originale di Wuhan su cui sono stati "tarati" i vaccini attualmente disponibili. Da tempo si discute sulla possibilità di effettuare - già nel prossimo autunno - una terza dose ottimizzata rispetto ai nuovi ceppi virali che circolano nel Mondo. Al momento però, gli attuali vaccini (soprattutto quelli ad mRNA) hanno dimostrato di contrastare con una buona efficacia anche le nuove varianti che hanno destato maggiori allarmi. Inoltre l'esempio dell'Inghilterra dimostra che nell'arco di un semestre può avvenire un completo cambiamento del ceppo virale dominante. 

Il rischio è quello di produrre un vaccino che diventi obsoleto prima ancora di essere distribuito su larga scala. Per questo motivo, andrebbero valutate con cautela le affermazioni di chi sostiene che - già dal prossimo autunno - la terza dose vaccinale sarà somministrata su vasta scala

Per il momento, sarà comunque necessario proteggere al meglio le persone più fragili che - seguendo le procedure standard di vaccinazione - non producono una adeguata copertura anticorpale.

venerdì 18 giugno 2021

Convivere con il virus: il modello "Austin"

La rivista Nature Communications oggi ha pubblicato un interessante articolo nel quale viene descritto il modello di gestione della pandemia adottato dalla città di Austin (Texas, USA) dove è stato attuato un sofisticato sistema per la modulazione delle cosiddette misure "non farmacologiche" (chiusure, restrizioni alla mobilità, fino a veri e propri lockdown) in funzione dell'andamento della circolazione virale.

Invece di considerare il dato dei contagi, poco affidabile per svariati motivi, il sistema è stato basato sul monitoraggio accurato dei nuovi ricoveri nei reparti ospedalieri Covid, incluse le terapie intensive. Questi dati sono stati inseriti nell'ambito di un modello epidemiologico che ha fatto attivare (o disattivare) le varie misure "non farmacologiche" sulla base di determinati parametri legati ai ricoveri ospedalieri (altro che le soglie giallo/arancio/rosse dell'Italia con i suoi pasticciatissimi (e talvolta manipolati) 21 indicatori!). 

Se un modello simile fosse stato applicato in Trentino durante lo scorso mese di novembre, non sarebbe stato possibile mantenere il Trentino in zona gialla facendo sparire dalle statistiche ufficiali buona parte dei contagi evidenziati con i test antigenici, ma non sottoposti alla verifica immediata con il test molecolare. I dati sui ricoveri avrebbero fatto scattare l'allarme immediatamente.

Una situazione opposta si sarebbe verificata in questo ultimo scorcio di primavera, quando - non potendo disporre di un sistema di allarme affidabile che possa segnalare eventuali colpi di coda della pandemia - sono state mantenute misure restrittive che probabilmente - in questo particolare momento - non sarebbero più strettamente necessarie.

Le soglie di allarme adottate nel modello sviluppato nella città di Austin sono state scelte per garantire che gli ospedali potessero continuare a svolgere con continuità il loro servizio, cercando - come secondo obiettivo - di minimizzare i danni economici prodotti dalle misure di contenimento della circolazione virale. I risultati di Austin nella riduzione sia dei danni sanitari che di quelli economici sono stati brillanti e decisamente migliori rispetto a tutte le altre grandi città del Texas.

Un punto fondamentale per il funzionamento del modello è legato all'affidabilità e alla tempestività dei dati utilizzati per il calcolo del modello. Dati sbagliati o arrivati in ritardo minano alla radice la possibilità di gestire la pandemia utilizzando simili strategie.

Ancora sulla vaccinazione eterologa

Vi segnalo un lavoro fatto in Germania - al momento disponibile solo come pre-print - nel quale viene analizzata la risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione eterologa costituita da una prima dose del vaccino AstraZeneca, seguita da una seconda dose del vaccino Pfizer - BioNTech.

Lo studio ha coinvolto complessivamente circa 250 volontari, suddivisi in tre gruppi: i primi due gruppi hanno ricevuto due dosi dello stesso vaccino (AstraZeneca o Pfizer - BioNTech), mentre il terzo gruppo è stato sottoposto a vaccinazione eterologa.

L'analisi della risposta immunitaria indotta due settimane dopo la seconda dose vaccinale ha mostrato per chi aveva fatto la vaccinazione eterologa un livello di risposta immunitaria confrontabile con quella di chi aveva ricevuto due dosi del vaccino ad mRNA e decisamente superiore rispetto a chi aveva ricevuto due dosi di AstraZeneca. Per alcuni aspetti, la risposta immunitaria indotta dalla vaccinazione eterologa era addirittura leggermente superiore rispetto a quella indotta da due dosi di Pfizer - BioNTech.

Lo studio non è ancora completo, sia per la dimensione ridotta del campione statistico fin qui analizzato, sia per la mancanza di dati disaggregati sulla base di parametri quali la classe d'età ed il genere dei volontari. 

Gli effetti collaterali associati alla vaccinazione eterologa sono stati confrontabili con quelli di chi aveva ricevuto due dosi dello stesso vaccino e non sembrano essere significativamente diversi. Va detto che, a causa della limitata dimensione del campione analizzato, questo studio ha potuto fornire indicazioni solo sugli effetti avversi più comuni, ma non ha potuto certamente evidenziare possibili effetti "rari".  

Le conclusioni di questo lavoro sembrano incoraggiare la pratica della vaccinazione eterologa per completare la vaccinazione delle persone under-60 che attendono una seconda dose vaccinale dopo aver ricevuto una prima dose di AstraZeneca. In Germania questa è ormai la prassi corrente, ma le persone - dopo un approfondito colloquio medico - possono comunque chiedere di completare la vaccinazione con una seconda dose di AstraZeneca.

Il lavoro non dice nulla a proposito di coloro che dopo aver ricevuto una prima dose di un vaccino ad mRNA, sono stati erroneamente sottoposti a richiamo con AstraZeneca. Non è detto che si possa applicare alla vaccinazione eterologa la proprietà commutativa (scambiando l'ordine dei due vaccini, il risultato non cambia).

giovedì 17 giugno 2021

Il vaccino CureVac non supera il test di Fase 3

L'annuncio è arrivato questa notte (ora italiana) subito dopo la chiusura dei mercati azionari americani ed ha già generato un crollo del titolo nel cosiddetto mercato "after-hours" (gli scambi di titoli azionari che avvengono ad di fuori dei normali orari di negoziazione). Un risultato disastroso per una società che, nell'agosto 2020, aveva ricevuto al Nasdaq di New York una accoglienza "stellare", pochi mesi dopo che il presidente Trump aveva inutilmente cercato di portare la società negli USA facendo una offerta finanziaria straordinariamente alta. Sembrava che dovesse essere la nuova "Tesla" dei vaccini, ma - almeno per il momento - non sembra che sia così.

Quotazione in US$ del titolo CureVac al Nasdaq di New York nella giornata di ieri 16 giugno. La linea grigia mostra la quotazione a mercato chiuso (after-hours)

La società tedesca ha annunciato che: "il vaccino ha raggiunto un'efficacia complessiva del 47% non soddisfacendo i criteri statistici di successo prestabiliti, soprattutto per le persone di età superiore ai 60 anni". Ricordo che il livello minimo di efficacia ("efficacy") che l'Unione europea ha posto nei suoi contratti di acquisto dei vaccini anti-Covid è pari al 50%.

Oggi è un brutto giorno per chi aveva investito i suoi soldi nel titolo CureVac, ma soprattutto per il gen. Figliuolo ed i suoi omologhi: inizialmente si sperava che la distribuzione del vaccino Curevac sarebbe potuta partire già dal corrente mese di giugno e avrebbe dovuto far crescere di oltre 400 milioni di dosi la disponibilità di vaccini ad mRNA su cui attualmente è impostata la campagna vaccinale europea.

Un certo ritardo era stato annunciato recentemente, ma il risultato relativo all'efficacia stimata durante la sperimentazione di Fase 3 è stato molto deludente. Le aspettative erano elevate e molti - incluso il sottoscritto - speravano che anche CureVac mostrasse alti livelli di efficacia, analoghi a quelli degli altri vaccini ad mRNA già disponibili (Pfizer - BioNTech e Moderna). 

Non è facile capire quale sia la ragione di questo risultato così basso. Certamente la sperimentazione di fase 3 del vaccino CureVac è avvenuta in un contesto ambientale molto più difficile rispetto a quello che ha caratterizzato gli studi di fase 3 dei due vaccini ad mRNA già approvati. I ceppi virali attualmente in circolazione sono molto più contagiosi rispetto a quello che circolava un anno fa (quasi il 60% dei contagi riscontrati durante la sperimentazione di fase 3 di CureVac sono stati attribuiti alle cosiddette "variants of concern" (VOC)). Questo fatto ha certamente prodotto una riduzione della efficacia stimata per il vaccino CureVac. 

Ci potrebbero essere anche delle differenze legate al dosaggio ed al modo di conservazione del vaccino. In particolare, CureVac ha cercato di sviluppare un prodotto di costo contenuto, che non richiedesse una catena del freddo complicata. Questi requisiti tecnici potrebbe aver portato allo sviluppo di un prodotto meno efficace rispetto alla concorrenza.

In questo momento è difficile capire se per CureVac ci potrà essere un futuro oppure se la partita è sostanzialmente chiusa. La sperimentazione di fase 3 non è stata ancora completata (parliamo, per il momento di "interim results" relativi ad un numero complessivo di 134 contagi a cui se ne dovrebbero aggiungere circa altri 80 prima che la sperimentazione sia conclusa). Per CureVac c'è ancora la residua speranza che gli ulteriori contagi che si riscontreranno durante le prossime settimane possano far crescere la valutazione finale dell'efficacia vaccinale, facendole raggiungere la soglia minima (50%) necessaria per poter ottenere l'autorizzazione alla somministrazione di emergenza. Tuttavia va detto che la distanza rispetto all'efficacia degli altri vaccini ad mRNA è talmente ampia da rendere il prodotto CureVac poco competitivo

Eventuali modifiche in termini di dosaggio o modalità di conservazione richiederanno comunque tempo, senza contare che implicherebbero la ripetizione di molte delle fasi di verifica del vaccino fin qui compiute.

mercoledì 16 giugno 2021

Commento sull'efficacia dei vaccini

Quotidianamente siamo bombardati dai numeri relativi all'efficacia dei vaccini. Sono numeri talvolta molto diversi tra loro e non sempre di facile interpretazione perché spesso sono ottenuti utilizzando metodologie disomogenee.

A livello di comunicazione si tende a dare molta enfasi al valore medio dell'efficacia, senza evidenziare l'indeterminazione statistica associata alla misura. Si tende a dimenticare che il valore medio è solo il valore più probabile, ma che - con una probabilità pari al 95% - il valore vero dell'efficacia potrebbe cadere entro un intervallo di valori (detto intervallo di confidenza al 95%) che potrebbe essere abbastanza ampio. Quindi la prima domanda da porsi quando viene annunciata una nuova stima è: "Quanto è accurata questa stima?". Spesso ci sono state discussioni feroci nella quali si confronta l'efficacia di vaccini diversi o dello stesso vaccino rispetto a differenti ceppi virali. Poi capita di vedere che l'incertezza statistica delle stime è talmente grande da rendere difficile qualsiasi tentativo di interpretazione.

Un secondo aspetto da tenere presente riguarda l'approccio seguito per la valutazione dell'efficacia di un vaccino. La parola "efficacia" quando viene riferita ad un farmaco viene tradotta in lingua inglese utilizzando due parole diverse: "efficacy" o "effectiveness". Il primo termine viene solitamente utilizzato per indicare la stima dell'efficacia che viene fatta lavorando su numeri dimensionalmente ridotti, ma molto ben controllati come avviene, ad esempio, durante gli studi di fase 3. Una volta superata questa fase, se il farmaco passa all'utilizzo di massa, si userà il termine "effectiveness" per indicare quella che in italiano potremmo chiamare "efficacia nel mondo reale". Quando si ha a che fare con grandi numeri (milioni ed oltre) aumenta considerevolmente la quantità di dati a disposizione, ma cambiano anche le metodologie di analisi dei dati che non possono essere così accurate e dettagliate come nel caso degli studi di fase 3 (limitati a poche decine di migliaia di volontari). 

Un terzo elemento importante di cui tenere conto è il livello di protezione rispetto a cui si vuole stimare l'efficacia di un vaccino. Generalmente, durante gli studi di fase 3, si fa riferimento al rischio di contrarre un contagio sintomatico. Si escludono quindi i contagi asintomatici (difficili da individuare), mentre rimane talvolta qualche ambiguità sul livello di sintomi che fanno scattare la segnalazione del contagio (e devono comunque essere confermati da un tampone molecolare positivo). 

In generale durante gli studi di fase 3 si lavora con qualche decina di migliaia di volontari (30 - 50 mila) che non abbiano mai contratto la Covid-19 in precedenza. Circa la metà di loro riceve il vaccino, mentre l'altra parte (il cosiddetto gruppo di controllo) riceve un placebo. Nessuno - neppure tra i volontari che vengono vaccinati e nel personale sanitario che li segue - conosce la lista di chi ha ricevuto il vaccino e di chi ha ricevuto il placebo. 

Si suppone che i volontari siano esposti al rischio di contagio in modo rigorosamente omogeneo e che la loro distribuzione (età, genere, ecc.) sia rappresentativa dell'intera popolazione. La sperimentazione termina dopo che sono stati evidenziati un certo numero di contagi (tipicamente 100 - 200). A questo punto si va a verificare come sono distribuiti i contagi tra chi ha ricevuto il vaccino e chi ha ricevuto il placebo. L'efficacia (efficacy) del vaccino è calcolata tramite l'espressione:

E = 1 - [(Cv · NP) / (CP · Nv)]

dove CP e Cv indicano, rispettivamente, i contagi contati tra il gruppo che ha ricevuto il placebo e quello che ha ricevuto il vaccino. NP e Nv indicano il numero di volontari appartenenti ai due gruppi.

Ad esempio, durante la sperimentazione di fase 3 del vaccino Pfizer - BioNTech sono stati reclutati poco più di 40 mila volontari quasi esattamente suddivisi tra il gruppo del vaccino e quello del placebo. Complessivamente sono stati trovati 8 contagi tra i vaccinati e 162 contagi tra chi aveva ricevuto il placebo. Inserendo questi dati nella formula si ottiene E ≅ 0,95, ovvero una efficacia pari a circa il 95%.

In realtà, il calcolo viene fatto usando formule più complesse che tengono conto, tra l'altro,  della distribuzione per classi d'età dei volontari e dei tempi di osservazione che possono essere diversi per i due gruppi (vaccinati e volontari che hanno ricevuto il placebo), ma la sostanza del calcolo è quella illustrata sopra. Si noti che E tende ad 1 (o se preferite l'efficacia tende al 100%) quando Cv tende a 0.

Come ricordato precedentemente, il calcolo dell'efficacia vaccinale fatto utilizzando la procedura fin qui discussa non tiene conto della gravità dei contagi. Ricordo che durante gli studi di fase 3 il numero assoluto di contagi gravi non è particolarmente elevato a causa della limitata numerosità del gruppo di volontari che viene ingaggiato. I numeri dei contagi che producono forme gravi di Covid-19 (o addirittura di decessi) sono in assoluto troppo piccoli per poterne estrarre conclusioni statisticamente affidabili. 

Per poter investigare l'impatto dei vaccini rispetto alla prevenzione dei casi più gravi bisogna affidarsi alle cosiddette analisi nel "mondo reale", ovvero bisogna calcolare quella che gli inglesi chiamano "effectiveness".

Purtroppo, quando si opera nel mondo reale non è possibile disporre di un gruppo di controllo organizzato. Durante le prime fasi della campagna vaccinale è più facile fare confronti tra chi ha già ricevuto il vaccino e chi è ancora in attesa di essere vaccinato. Tuttavia, man mano che la vaccinazione procede, l'analisi diventa sempre più complicata. In linea di principio, sarebbe possibile costituire una sorta di gruppo di controllo virtuale associando al campione delle persone vaccinate un campione di non vaccinati che abbia caratteristiche omogenee in termini di distribuzione d'età, genere, etnia, provenienza regionale, data di contagio, abitudini sociali, ecc. Si tratta comunque di una procedura molto complessa, fattibile solo se si dispone di un efficace sistema informativo che raccolga i dati sanitari di un intero Paese (non è certamente il caso dell'Italia). In mancanza di un vero e proprio gruppo di controllo, si può osservare come calano i contagi dopo la vaccinazione, correggendo i dati per tener conto dell'andamento generale della pandemia. Sono procedure che comportano un ampio margine di incertezza e talvolta includono delle ambiguità interpretative che possono influenzare i risultati in modo significativo.

Quando si opera con i dati provenienti dal "mondo reale", il "vantaggio" (se così lo possiamo definire!) è che si ha a che fare con numeri grandi anche per i contagi più gravi e quindi si può stimare l'efficacia (intesa come effectiveness) anche per specifiche forme di contagio come, ad esempio, quelle che comportano l'ospedalizzazione. 

In generale l'efficacia di un vaccino (ovvero il grado di protezione) rispetto ai contagi più gravi è più elevata rispetto a quella che si stima rispetto ad una qualsiasi forma di contagio sintomatico. Questo equivale a dire che, in caso di contagio, le persone vaccinate tendono a contrarre forme meno gravi della malattia, mediamente con minore carica virale e con sintomi più blandi. 

Ovviamente non si può escludere che i vaccini impediscano del tutto forme gravi di contagio, specialmente nelle persone che hanno un sistema immunitario indebolito a causa dell'età o di malattie pregresse, oppure in presenza di ceppi virali particolarmente aggressivi. Ma si tratta - come al solito - di un discorso probabilistico: anche se i vaccini non offrono una protezione assoluta, garantiscono comunque un elevato livello di protezione e possono salvare molte vite umane.

martedì 15 giugno 2021

Gli inglesi hanno fornito nuovi dati su vaccini e variante indiana

Dall'Inghilterra continuano ad arrivare dati talvolta un po' confusi sull'andamento della pandemia ed, in particolare, sul ruolo giocato dalla cosiddetta variante indiana (delta). I primi dati parlavano di un livello di protezione molto basso contro i contagi sintomatici offerto da una singola dose vaccinale, con una copertura più alta per chi aveva fatto il richiamo (67% per AstraZeneca e 88% per Pfizer-BioNTech). Nel frattempo, da parte delle Autorità sanitarie inglesi sono stati segnalati numerosi casi di decessi, sia tra chi aveva fatto una sola dose vaccinale, sia tra chi aveva completato la vaccinazione.

Oggi le Autorità sanitarie inglesi hanno pubblicato un nuovo rapporto che  si riferisce ai casi più gravi, quelli che hanno comportato l'ospedalizzazione. In nessun caso il contagio con la variante indiana avrebbe provocato la morte di chi aveva ricevuto almeno una dose vaccinale (parliamo ovviamente solo del campione di persone considerate all'interno dello studio, visto che - in generale - sono stati segnalati casi di decessi anche tra i vaccinati). 

I risultati di questo secondo studio sono una estensione del precedente lavoro che si riferiva alla protezione rispetto a qualsiasi forma di contagio sintomatico. In pratica sono stati monitorati tutti i positivi al virus che sono stati ricoverati con procedure di emergenza (esclusi i feriti in incidenti) entro due settimane dopo avre fatto il tampone positivo. Tramite una specifica analisi statistica (modello di regressione di Cox) è stata calcolata la probabilità di ricovero dopo il contagio, aggiustata per età, vulnerabilità legata ad altre patologie, etnia e settimana in cui si è verificato il contagio.

Combinando i dati relativi alla possibilità di contrarre il contagio con quelli relativi alle ospedalizzazioni dei contagiati, è stato ricavato il grado di protezione che i vaccini garantiscono rispetto ai contagi più gravi che portano all'ospedalizzazione. La stima è stata fatta per le due varianti: inglese (alpha) ed indiana (delta).

In generale, per tutti i vaccini e per qualsiasi variante, il grado di protezione rispetto ai contagi più gravi che comportano l'ospedalizzazione è maggiore rispetto al grado di protezione offerto rispetto alla possibilità di contrarre una qualsiasi forma di contagio sintomatico, anche non particolarmente grave. I risultati presentati in questo nuovo studio inglese sono i seguenti:

  • Per il vaccino Pfizer-BioNTech la protezione contro l'ospedalizzazione sarebbe pari al 94% con una sola dose, sostanzialmente uguale a quella che si ottiene con due dosi (96%). Gli stessi numeri per la variante inglese scendono rispettivamente all'83% e al 95%.
  • Per il vaccino AstraZeneca la protezione contro l'ospedalizzazione sarebbe pari al 71% con una sola dose e salirebbe al 92% con due dosi. Gli stessi numeri per la variante inglese sono pari al 76% e all'86%. Sempre per AstraZeneca, due dosi vaccinali garantiscono una copertura pari al 64% contro qualsiasi tipo di contagio sintomatico da variante indiana, contro il 74% verificato con la variante inglese. 
Le percentuali riportate sono i valori medi. In generale queste stime sono affette da un grande errore statistico perché il numero complessivo di casi considerati è abbastanza piccolo (per la variante indiana, circa 14 mila casi, di cui 166 ospedalizzati). Tenuto conto della grande indeterminazione statistica non ha molto senso discutere di piccole differenze tra i valori medi. Si nota tuttavia un fatto abbastanza sorprendente: in caso di contagio con la variante indiana, due dosi di vaccino AstraZeneca garantirebbero una copertura dall'ospedalizzazione più alta rispetto a quella verificata se il contagio fosse avvenuto con la variante inglese (92% contro 86%). Un analogo risultato si trova con una dose di Pfizer-BioNTech (protezione pari al 94% per la variante indiana, contro l'83% per la variante inglese).
 
Questi dati appaiono sorprendenti considerato che i test fatti sul siero dei vaccinati hanno dimostrato che la capacità neutralizzante degli anticorpi nei confronti della variante indiana è decisamente minore rispetto alla variante inglese. Sappiamo che la risposta del sistema immunitario non dipende solo dagli anticorpi neutralizzanti, ma - a mio avviso - prima di trarre conclusioni sarebbe bene attendere che arrivino dati più completi.

In generale, va osservato che tutti i dati di cui parliamo sono il frutto di studi osservazionali che non sono sempre caratterizzati da un elevato livello di accuratezza. I risultati possono essere pesantemente condizionati dal livello di circolazione del virus e dal tempo di osservazione. Di fronte all'avanzata della variante indiana si registra l'urgenza di avere indicazioni sul funzionamento dei vaccini ma, in statistica, accuratezza e tempi stretti di osservazione non vanno sempre a braccetto.