giovedì 24 giugno 2021

L'ospedale di Hämeenlinna e la variante indiana: una storia da manuale

La storia non è recentissima perché risale allo scorso mese di maggio ed è stata riportata dalla stampa finlandese all'inizio del mese di giugno, ma ha suscitato molta apprensione tra le Autorità sanitarie internazionali perché è emblematica di come la variante indiana (delta) possa diffondersi anche in ambienti dove una larga parte delle persone sia stata vaccinata (almeno con una singola dose). L'episodio è stato citato anche in una nota mandata dal Ministero della Salute italiano alle Regioni/PPAA per sollecitarle ad un maggiore controllo sulla presenza della nuova variante virale.

La storia si svolge nell'ospedale universitario di Hämeenlinna nel sud della Finlandia ed inizia con il caso di un paziente che aveva contratto l'infezione dovuta alla variante indiana tramite un contatto stretto che, a sua volta, era stato contagiato all'estero. Da qui è iniziata la catena di contagio interna all'ospedale che si è allargata inizialmente tramite contagi asintomatici del personale sanitario. Alla fine sono stati individuati 99 contagi suddivisi tra il personale ospedaliero (42 contagi) e i pazienti ricoverati per patologie non-Covid (57 contagi). Complessivamente, 17 dei pazienti contagiati sono deceduti, anche se  la Covid-19 non è stata la causa determinante di tutti i decessi.

Fin qui sembra la "normale" storia di un focolaio in un ospedale purtroppo simile a tante altre storie che abbiamo visto nel corso di questa lunga pandemia. Le cose appaiono sotto una luce diversa se andiamo a vedere lo stato vaccinale delle persone contagiate. 

Tra i 57 pazienti infettati, 41 avevano ricevuto almeno una dose vaccinale. Tra i 17 pazienti deceduti, 1 aveva ricevuto ambedue le dosi, 11 avevano ricevuto una sola dose ed i rimanenti 5 non erano ancora stati vaccinati. A dimostrazione - ammesso che ce ne sia ancora bisogno - che una sola dose vaccinale serve a poco quando si ha a che fare con la variante indiana

L'età dei pazienti deceduti andava da 60 fino a 100 anni, con una media pari ad 80 anni. Parliamo quindi di persone potenzialmente fragili e certamente il fatto che fossero ricoverate in ospedale a causa di altre patologie ha aumentato il loro livello di rischio. Da una analisi delle cartelle cliniche, le Autorità sanitarie finlandesi hanno dedotto che il contagio con SARS-CoV-2 avvenuto in ospedale è stato una causa determinante per circa 3/4 dei decessi.

Tra i 42 componenti del personale ospedaliero che sono risultati positivi al virus, 17 avevano ricevuto ambedue le dosi vaccinali e 2 solo la prima dose. Le rimanenti 23 persone non vaccinate appartenevano a personale che non aveva contatti diretti con i pazienti oppure erano studenti di medicina che frequentavano l'ospedale per effettuare i loro tirocini (il 70% degli studenti è stato contagiato). Per tutto il personale sanitario vaccinato, i sintomi sono stati di livello basso e, in molti casi, completamente assenti. 

L'altra lezione che possiamo imparare è che - almeno quando abbiamo a che fare con la variante indiana - i vaccini non forniscono una copertura "sterilizzante" ovvero non impediscono di essere contagiati in forma asintomatica e quindi non bloccano la catena di trasmissione del contagio. Da qui segue che forse andrebbero riviste certe frettolose decisioni che - anche nel nostro piccolo Trentino - hanno bloccato i controlli periodici con tampone molecolare del personale vaccinato che lavora a stretto contatto con persone ad alto rischio negli ospedali e nelle RSA.



1 commento:

  1. Da ‘eroi’ a dimenticati. Come stanno i sanitari oggi?
    Nadia Muscialini, Psicoanalista, psicologa ospedaliera – 1 Luglio 2021

    Come stanno i sanitari dopo più di un anno dall’inizio dell’emergenza dovuta alla pandemia? Ciò che si nota è il silenzio per la categoria degli ospedalieri, i “guaritori”, per mesi alla ribalta per l’impegno, la dedizione e il sacrificio che li aveva contraddistinti. Che fine hanno fatto gli “eroi” che hanno salvato migliaia di vite umane, che grazie al loro sacrificio hanno impedito che le strade delle nostre città si riempissero di morti e che hanno permesso a molte famiglie di tenere, seppur sfilacciati, i contatti con i propri cari ricoverati negli ospedali? Perché non se ne parla più dopo essere stati al centro dell’attenzione mediatica?
    Dapprima osannati, poi accusati di fare allarmismo e di diffondere il virus (capri espiatori/untori), infine dimenticati; dove sono, cosa fanno? A dirla tutta, ed è bene che si sappia, i sanitari già dopo la prima emergenza sono stati cooptati per recuperare le prestazioni (non Covid) lasciate in sospeso a causa delle chiusure e conversioni delle strutture per la gestione degli ammalati; di nuovo ad ottobre 2020 sono stati reclutati per la gestione della seconda e della terza emergenza: nuove chiusure, accorpamenti di reparti, spostamenti di personale, lockdown. Sempre in prima linea, sempre accanto a malati e famiglie, con la differenza che dopo la prima drammatica emergenza si è cercato, per quanto possibile, di non chiudere ambulatori e servizi dedicati al resto dell’utenza.

    Con l’arrivo dei vaccini i medesimi sanitari, impegnati su più fronti, sono stati reclutati per una nuova impresa: la campagna vaccinale. Se facciamo due conti su quello che è stato il tanto declamato potenziamento della sanità e che è constato in qualche nuova risorsa (spesso giovanissima) impegnata nelle strutture Covid, i sanitari sono sempre gli stessi. Anzi molti di meno poiché chi era in pensione è rientrato, chi proveniva dall’estero o da regioni meno coinvolte nell’emergenza anche; un numero non indifferente ha deciso di cambiare lavoro o modalità dello stesso lasciando le strutture pubbliche dove lavorava, altri hanno deciso di cambiare professione e dedicarsi ad altro.

    Fatte queste premesse, per sapere come stanno i sanitari, i “guaritori”, dobbiamo capire chi sono. Intanto possiamo dire cosa non sono: i sanitari non sono degli avatar, non sono esseri astratti, ideali e nemmeno qualcosa di scontato; non sono eroi, non sono capri espiatori, non sono untori, non sono icone presenti in programmi televisivi. I guaritori sono persone come tutte le altre. Come tutti hanno avuto paura, si sono ammalati, sono morti, hanno perso amici e familiari; sono mogli, mariti, padri e madri, sorelle, fratelli.

    A partire da marzo del 2020, oltre che “operatori della cura”, si sono dovuti occupare anche dei legami affettivi e i contatti dei pazienti ricoverati con chi era rimasto a casa. Sono stati coloro che si sono dedicati primariamente a offrire, con creatività e innovazione, cure e assistenza, ma anche umanità.

    A partire dalle strategie per farsi riconoscere dietro le bardature con i loro nomi e le foto sui camici, ma anche usando i propri dispositivi personali per aiutare chi non riusciva a rimanere in contatto con i propri cari; recuperando indumenti, protesi acustiche o occhiali, ridando dignità ad ammalati soli e spaventati perché infetti, ma ancora più fragili degli altri perché privi di ogni riferimento umano.

    I sanitari da curanti sono diventati guaritori, hanno offerto cure e conforto, hanno sostituito in tutto e per tutto gli affetti e la rete di chi era ricoverato. Non si sono risparmiati su nulla, non si sono mai fermati, hanno, come tutti, gioito, pianto, pregato, lottato, ma più che altro lavorato ininterrottamente. Non si sono tirati indietro nemmeno quando si è trattato di accogliere il dolore di chi aveva perso un congiunto, una persona cara.

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