martedì 30 giugno 2020

Uso della mascherina e prodotto interno lordo USA

Un gruppo di ricercatori guidato da Jan Hatzius capo economista della Goldman Sachs, una delle più grandi banche d'affari al mondo, ha condotto uno studio intitolato "Face Masks and GDP" per valutare quale sarebbe l'effetto sul prodotto interno lordo (PIL in italiano, GDP in inglese) degli Stati Uniti nel caso in cui fosse ordinato, a livello federale, l'utilizzo della mascherina. 

Sappiamo che l'argomento è oggetto di un aspro dibattito tra il presidente Trump, fiero oppositore della mascherina, ed i suoi avversari politici. Con Trump alla Casa Bianca credo che l'idea di un ordine federale riguardo all'uso delle mascherine sia alquanto improbabile* e la simulazione di Goldman Sachs sia destinata a rimanere un puro esercizio teorico. I risultati sono comunque interessanti perché lo studio copre diversi aspetti e si colloca a scavalco tra epidemiologia, economia e sociologia. 

In breve, solo una parte degli americani sarebbero disposti ad ubbidire ad un eventuale ordine federale, ma questo basterebbe per portare ad una sostanziale riduzione dei nuovi contagi. Grazie all'incremento nell'uso delle mascherine l'epidemia rallenterebbe e si potrebbero evitare severe misure di lockdown che produrrebbero una perdita del PIL pari al 5%. Una bella cifra considerate le dimensioni dell'economia americana.

I calcoli di Goldman Sachs (GS) partono da una valutazione empirica che collega la discesa del prodotto lordo di varie Nazioni in funzione delle misure di lockdown che sono state applicate:
La conclusione a cui arrivano i ricercatori GS è piuttosto eloquente "If a face mask mandate meaningfully lowers coronavirus infections, it could be valuable not only from a public health perspective but also from an economic perspective because it could substitute for renewed lockdowns that would otherwise hit GDP"

Come tutte le stime basate su modelli socio-economici anche questo studio di Goldman Sachs - a mio modesto avviso - "andrebbe preso con le pinze". Non è facile capire quanto siano sensate le diverse ipotesi che i ricercatori della banca d'affari hanno messo nei loro modelli. Comunque lo studio ha il merito di aver evidenziato, per la prima volta, il considerervole impatto economico di talune misure di prevenzione. Il lockdown è una misura estrema che si può evitare se si adottano comportamenti prudenti e responsabili e non si sottovalutano i pericoli. A quanto pare, le mascherinere, sono di fondamentale importanza non solo per tutelare la salute, ma anche per salvaguardare il portafoglio.

lunedì 29 giugno 2020

L'epidemia degli altri: cosa succede oltre Brennero?

Ricordiamo tutti l'atteggiamento non proprio "simpatico" che l'Austria ha mantenuto verso l'Italia in occasione dello sviluppo della pandemia di Covid-19. Atteggiamento un po' schizofrenico per la verità, considerato che alcune località sciistiche austriache sono state notoriamente uno dei principali punti di diffusione del virus specialmente verso alcuni Paesi del Nord Europa. Comunque l'Austria sembrava essere uscita dalla fase acuta prima dei Paesi vicini ed infatti, quando ancora manteneva chiuse le frontiere con l'Italia, aveva rapidamente allentato le restrizioni che erano state introdotte durante la fase di lockdown.

Purtroppo i dati di questa fine di giugno sembrano indicare una situazione che mostra una qualche problematicità. Qui di seguito riporto i dati relativi ai nuovi contagi settimanali ed ai pazienti attualmente positivi registrati in Austria da metà aprile in poi:
Nuovi casi di contagio settimanali (punti e linea rossa) e numero di pazienti attualmente positivi (punti e linea blu) registrati in Austria da fine aprile ad oggi.
Fino ad inizio maggio i nuovi contagi scendevano rapidamente, ma poi il calo è rallentato fino a toccare il valore minimo nella prima settimana di giugno. Da quel momento c'è stata una ripresa che ha riportato i nuovi casi settimanali intorno al valore di 300. Analogo andamento, sia pure leggermente spostato nel tempo, è stato registrato per il numero di pazienti attualmente positivi. Il minimo è stato registrato intorno a metà giugno, ma nelle ultime due settimane c'è stata una evidente crescita. Non siamo certamente in una situazione da "allarme rosso", ma le Autrità sanitarie austriace hanno manifestato una certa preoccupazione, assieme con l'intenzione di potenziare il sistema di tracciamento dei nuovi contagi. Curiosa, secondo me, l'affermazione del Ministro della Salute austriaco Rudolf Anschober secondo cui "l'abolizione parziale dell'obbligo di mascherine non è equivalente a un divieto di indossarle". Un tipico esempio - a mio avviso - di ambiguità a livello comunicazionale. Per confronto, il dato italiano dell'ultima settimana normalizzato rispetto agli abitanti sarebbe di circa 210 nuovi contagi rispetto ai 300 contagi austriaci, senza contare che in Italia i nuovi contagi sono ancora in fase discentente.

Difficile dire se l'aumento registrato in Austria durante quest'ultima settimana sia legato a episodi destinati a rientrare rapidamente o sia l'indicazione di una inversione di tendenza. Comunque se state pensando di passare le vostre vacanze estive in Austria, vi consiglio di controllare lo stato dei nuovi contagi prima di partire.

Seconda ondata (?) a stelle e strisce


Cittadini del Texas in coda per sottoporsi a tampone. Almeno il 10% dei tamponi fatti durante gli ultimi giorni è risultato positivo. Fonte: BBC su foto Reuters
Mentre in Europa stiamo assistendo alla fase calante della pandemia, gli Stati Uniti sembrano ormai nel pieno della seconda ondata. In realtà, la situazione degli USA è un po’ più complicata ed è molto disomogenea a causa delle diverse politiche che gli Stati americani hanno seguito nella lotta al Covid-19. Ad esempio, lo Stato di New York è stato tra i primi ad essere investito dalla pandemia ed ha pagato un pesantissimo tributo. Dopo un lungo periodo di lockdown la situazione attuale dello Stato di New York è abbastanza simile a quella europea con una frazione progressivamente decrescente dei tamponi positivi. Altri Stati, specialmente nel Sud-Ovest del Paese hanno attuato lockdown parziali e temporalmente contenuti. Il tutto è stato complicato dalla particolare situazione americana dove in un anno di elezioni presidenziali anche il Covid-19 è diventato argomento di scontro politico. È così successo che alcuni Governatori abbiano abbandonato le misure di lockdown anzitempo sulla base di valutazioni politiche piuttosto che scientifiche. Il risultato è sotto gli occhi di tutti ed è ben rappresentato dalla figura che mostro qui sotto dove si vede l’andamento dei nuovi contagi giornalieri.

Fonte: BBC su dati The Covid tracking project

La curva è da manuale di epidemiologia. Dopo una rapida crescita avvenuta a marzo, nelle prime settimane di aprile il numero di nuovi casi si era stabilizzato per poi scendere fino ad valore di circa 20.000 nuovi contagi giornalieri. A partire da circa metà giugno si osserva una nuova significativa crescita dei nuovi contagi giornalieri. Il dato mostrato in figura è quello nazionale e quindi media andamenti diversi di Stati diversi. Tuttavia la tendenza generale è chiarissima: gli Stati Uniti si trovano di fronte ad una forte risalita dei contagi. Non abbiamo a che fare, come sta succedendo attualmente in Italia ed in altri Paesi europei, con un numero limitato di focolai, prontamente confinati. In alcuni Stati americani i sistemi sanitari sono in grande difficoltà ed è purtroppo prevedibile che – a breve – gli effetti di questa seconda ondata si vedranno anche sul fronte dei decessi.

Analizzando le cose più in dettaglio, si vede che l'aumento dei casi è concentaro negli Stati del Sud-Ovest americano che erano stati meno colpiti nella fase iniziale della pandemia. La figura seguente mostra chiaramente come il dato nazionale contenga al suo interno andamenti molto differenti:
Fonte: BBC su dati The Covid tracking project
Alla luce dell'andamento evidenziato nella figura superiore gli esperti stanno discutendo se si possa veramente parlare di una "seconda ondata" o se invece si tratta solo di uno sfasamento temporale con cui la "prima ondata" sta interessando le varie parti del Paese. In realtà, almeno per gli Stati del Sud la diffusione del virus aveva già raggiunto livelli significativi (> 5000 casi giornalieri) ad aprile. Dopo un periodo di lenta crescita, da giugno in poi c'è stata una ulteriore accelerazionea che ha portato i nuovi contagi a livelli circa tripli rispetto ad aprile. Possiamo quindi parlare veramente di una seconda ondata.

Qualcuno ha provato a sostenere che l'aumento dei nuovi contagi sia stato legato all'aumento del numero di tamponi, ma la percentuale di tamponi positivi in molti Stati americani è ancora talmente alta da rendere questa speigazione altamente improbabile:
In numerosi Stati americani la percentuale di tamponi positivi supera il livello del 5%, a dimostrazione dell'elevato livello di circolazione del virus. Fonte: BBC su dati The Covid tracking project
 
Nelle ultime settimane c’è stata inoltre una chiara tendenza alla diminuzione dell’età media delle persone contagiate. Questo potrebbe significare che le persone più anziane abbiano mantenuto comportamenti improntati ad una certa cautela, anche negli Stati dove le misure di lockdown sono state prematuramente abbandonate. Senza contare che molte delle persone più fragili sono ahimè già passate a miglior vita, seguendo quello che gli epidemiologici chiamano effetto “harvesting” (negli USA le morti precoci causate dal Covid-19 sonostate oltre 125.000). Se osserviamo il numero di ricoveri e delle persone che devono essere assistite con respiratore, si osservano in molti Stati numeri crescenti a dimostrazione che il virus non ha perso la sua pericolosità.

La situazione è molto seria e alcuni Governatori che avevano seguito il presidente Trump nella sua frettolosa dichiarazione di fine dell’emergenza stanno ripristinando forme più o meno severe di lockdown. Sono scattati anche divieti di spostamento tra Stato e Stato.

Per noi europei, rimangono i limiti all’interscambio con gli Stati Uniti che certamente produrranno una serie di ulteriori problemi dal punto di vista economico. Assieme ai limiti, dobbiamo prendere atto della lezione che ci viene dagli USA. Anche in un Paese avanzato ed economicamente prospero, la pandemia di Covid-19 può produrre danni ingenti, specialmente se viene presa sotto gamba.

domenica 28 giugno 2020

Via un manager, ne arriva un altro, ma i problemi restano

Dopo settimane di rumors mai smentiti, è diventata ufficiale la notizia delle dimissioni anticipate del Direttore generale di APSS Trento che lascia il Trentino per trasferirsi a Bologna. La notizia ha generato un qualche sconcerto e, sul fronte politico, ha prodotto sia vivaci prese di posizione che clamorosi silenzi. Personalmente non conosco il Dr. Bordon a sufficienza per esprimere un parere sul suo operato. In generale, sono comunque piuttosto diffidente quando vedo che la valutazione di un manager pubblico diventa oggetto di disputa politica.

A mio avviso, più che di discutere di questo o quel manager, in Trentino ci sarebbe bisogno di una seria ed approfondita discussione sul futuro della Sanità pubblica che di problemi ne aveva già tanti, anche prima della crisi generata dall’inaspettata epidemia di Covid-19. Provo ad elencarne alcuni, senza alcuna pretesa di completezza.

  1. Da ormai 9 anni il Trentino si è incartato nel progetto del NOT (Nuovo Ospedale di Trento). Già potremmo notare che chi, a suo tempo, inventò l’acronimo NOT non era scaramantico (o non conosceva l’inglese). Per esperienza, conosco bene le difficoltà che si devono affrontare per costruire grandi strutture pubbliche: sembra che ormai alcune aziende di costruzioni abbiano, al loro interno, più avvocati che ingegneri. Le trappole dei ricorsi legali sono sempre pronte a scattare, ma nove anni per rimanere sostanzialmente al punto di partenza mi sembrano veramente troppi. Non voglio trovare colpevoli a tutti i costi, ma forse qualche errore c’è stato. Possibile che nessuno sia mai stato chiamato a risponderne?
  2. Sperando che prima o poi il progetto NOT parta, resta irrisolto il problema del modello generale da adottare per la Sanità trentina. Il NOT sarà certamente un punto di forte aggregazione, ma rimane del tutto incerto il modo con cui pensiamo di gestire il rapporto tra Trento ed il resto del Trentino. Qualche forza politica ha giocato pesantemente su questo punto, quasi come se ci fosse un conflitto di interessi tra capoluogo e valli. Se si vogliono prendere voti, è facile promettere tutto a tutti, ma poi bisognerà calarsi nella realtà e fare i conti con le risorse finanziarie e umane che non sono infinite. Fare chiarezza su questo punto è essenziale per capire quale sarà il futuro del Trentino dal punto di vista sanitario.
  3. L’epidemia di Covid-19 ha colpito duramente il Trentino. In questo blog ho dimostrato, numeri alla mano, come la reazione all’epidemia del Trentino sia stata di gran lunga la peggiore di tutto il Nord-Est. Tutti gli indicatori (prevalenza, densità di decessi, mortalità nelle RSA) confermano come il Trentino sia stato colpito più duramente degli altri territori del Nord-Est con alcune Valli a forte vocazione turistica che hanno registrato una densità di decessi superiore alla media lombarda. Senza contare le magre figure che il Trentino ha rimediato nella divulgazione dei dati relativi all’epidemia. Senza l’abnegazione e la capacità di medici, infermieri e di tutto il personale sanitario i danni da Covid-19 sarebbero stati ancora maggiori. Abbiamo elogiato queste persone chiamandoli eroi, negli stessi giorni in cui qualcuno definiva “irragionevole” verificare il loro stato di salute con i tamponi. Alla fine abbiamo anche scoperto che la tariffa dell’eroismo è di 5 euro (lordi) all’ora.  Dovremmo imparare qualcosa da quello che è successo, magari cominciando a ridisegnare la presenza territoriale della Sanità pubblica in modo da assistere il più possibile le persone nei loro luoghi di residenza. Questo non vale solo per il Covid-19 che speriamo stia passando definitivamente. Nei prossimi anni il progressivo invecchiamento della popolazione renderà questi problemi prioritari. Non affrontarli da subito provocherebbe grossi danni.
  4. Un discorso a parte riguarda quanto è successo nelle RSA. Sappiamo che il vecchio concetto di “casa di riposo” è superato e che le RSA ormai ospitano quasi integralmente grandi anziani con gravi problemi di salute. Il fatto che statisticamente passino mediamente tre anni tra il ricovero dei nuovi ospiti delle RSA ed il loro decesso (dato pre-Covid-19) la dice lunga su come stanno le cose. Non possiamo tuttavia pensare alle RSA come un “deposito di vite marginali. Ognuno ha diritto a vivere tutti gli anni della sua esistenza con dignità e nel modo migliore possibile e siccome l’unica alternativa alla vecchiaia è costituita dal morir giovani, il problema riguarda tutti, anche coloro che oggi non sono ancora vecchi. In circa metà delle RSA trentine non siamo riusciti a prevenire l’ingresso dell’epidemia di Covid-19, né tanto meno a mitigarne la diffusione. Il periodo a cavallo di marzo-aprile 2020 è stato terribile e tante (troppe) persone ci hanno lasciato prematuramente. Il dato della mortalità delle RSA trentine è tra i più alti d’Italia. Ci sono inchieste della Magistratura in corso, ma come cittadino mi aspetterei che si facesse chiarezza senza scomodare i NAS. Chi ha seguito questo blog ricorderà le mie reiterate richieste di accedere ai dati delle RSA, a cui c’è stata solo una parziale risposta. Fin qui non si è voluto fare chiarezza fino in fondo su quanto è accaduto nelle RSA, ma almeno dovremmo imparare la lezione e ripensare completamente al loro modello organizzativo. In particolare, bisognerà dotare le RSA di un supporto sanitario adeguato rispetto alle reali necessità.
Come vedete i problemi sono numerosi. Potrei aggiungere altri punti, ma penso che l’elenco sia più che sufficiente per comprendere la complessità della situazione. Francamente non credo che il/la nuovo/a Direttore/a generale – chiunque sia – disporrà di poteri taumaturgici e possa da solo/a risolvere tutte le questioni aperte. A mio avviso è necessario che il Trentino, nel suo complesso, riporti la questione della Sanità al centro del dibattito pubblico. Dovremo confrontare opinioni diverse e stabilire priorità chiare e condivise. Possibilmente dovremmo uscire da vuoti schemi partitici e, una volta tanto, i nostri eletti (maggioranza e minoranza) dovrebbero cercare le soluzioni migliori, senza preoccuparsi di raggranellare qualche voto in più. Ci riusciranno? Vedremo!

venerdì 26 giugno 2020

VI rapporto ISS: trapela una certa preoccupazione

Come ogni venerdi, puntualmente è uscito il rapporto dell'Istituto Superiore di Sanità relativo all'andamento dell'epidemia di SARS-CoV-2 in Italia. Il rapporto copre la sesta settimana dalla fine della Fase 1, ovvero il periodo che va dal 15 al 21 giugno. Il rapporto ricorda che la situazione complessiva è buona, ma la fase calante dell'epidemia sembra essere molto lenta. In particolare, ci sono nuovi focolai che vengono seguiti con una certa attenzione. Il rapporto non si sbilancia a fare previsioni su cosa potrebbe succedere il prossimo autunno (giustamente perché per farlo ci vorrebbe la sfera di cristallo), ma sottolinea l'importanza di estinguere i nuovi focolai con la massima decisione ed efficacia.

L'andamento dei nuovi contagi nelle regioni del Nord Italia più le Marche è riportato in tabella. Le settimane sono numerate dall'inizio della Fase 2. La settimana numero uno è quella iniziata lo scorso 11 maggio.


Nuovi contagi/settimana x 100.000 abitanti
Settimana 1 2 3 4 5 6







Lombardia 23,75 16,68 15,40 9,73 12,02 8,77
Piemonte 16,69 12,46 9,16 4,04 3,83 3,74
P.A. Bolzano 2,82 1,51 0,94 0,94 1,69 3,58
Liguria 15,03 6,13 4,84 2,90 1,87 3,22
Emilia Romagna 9,35 6,32 4,82 2,11 2,96 3,18
Trentino 24,95 12,57 6,28 1,66 2,03 2,96
Val d’Aosta 9,55 6,37 4,77 2,39 0,80 0,80
Friuli V.G. 2,14 2,30 2,55 0,91 0,99 0,74
Marche 5,64 3,02 0,96 1,05 0,66 0,72
Veneto 3,85 1,63 1,12 0,59 0,73 0,47

Notiamo che nel passaggio dalla quinta alla sesta settimana c'è stato un certo miglioramento della Lombardia, mentre molte altre Regioni/PPAA hanno segnato un certo incremento. Parliamo ancora di numeri piccoli, ma certamente l'epidemia si sta esaurendo (parliamo di prevalenza) meno rapidamente di quanto sarebbe auspicabile. Particolarmente significativo il caso della Provincia Autonoma di Bolzano, ma in una realtà piccola come l'Alto Adige c'è stato l'impatto di 11 contagi faniliari legati al rientro dall'estero di un componente della famiglia. Il focolaio è stato subito circoscritto (per fortuna i figli non andavano a scuola!) e già dalla prossima settimana l'Alto Adige dovrebbe scendere verso valori più bassi.

Nell'analisi della tabella dovremmo tener conto del numero di tamponi fatti (mai considerato da ISS) e della presenza di nuovi positivi che hanno fatto il tampone dopo aver fatto il test sierologico. Alcuni di loro potrebbero essere positivi al tampone  pur non essendo più contagiosi perché hanno in circolazione solo frammenti di virus, residui della malattia ormai superata. Tuttavia i nuovi focolai che stanno apparendo in diverse parti d'Italia sono nuovi contagi dovuti ad una circolazione del virus ancora significativa.

Visto che il dato Lombardo questa settimana è migliorato ci aspetteremmo anche un calo dell'indice di trasmissione R stimato per la Lombardia. Non è affatto così come si vede dal grafico mostrato qui sotto:
Indice di trasmissione del contagio R stimato per la Lombardia. La settimana numero uno è quella iniziata lo scorso 11 maggio.
In realtà si tratta di un esempio da manuale di sfasamento temporale dei dati. Poiché l'indice viene stimato con circa due settimane di ritardo rispetto alla data di rilascio del rapporto, l'indice riportato per la sesta settimana è sostanzialmente quello che descriveva lo sviluppo dei contagi tra la quarta e la quinta settimana. I nuovi contagi della Lombardia avevano avuto un incremento passando da 9,73 della quarta settimana a 12,02 della settimana successiva. Notiamo inoltre che la stima del valore di R mostra un evidente aumento della barra d'errore, con conseguente riduzione dell'affidabilità statistica.

Pool testing:che sarà mai?

Il peggioramento della diffusione dell'epidemia di SARS-CoV-2 negli Stati Uniti (vedi figura qui sotto) ha spinto il capo del gruppo federale di contrasto all'epidemia Prof. Antony Fauci ad ipotizzare un cambio di strategia nella somministrazione dei tamponi. In alcune situazioni si sta pensando di passare dalla analisi di tamponi individuali al cosiddetto "pool testing".
Stato dell'epidemia di SARS-CoV-2 in USA al 256 giugno. Sorgente: https://www.covidexitstrategy.org/
La tecnica di pool testing non è nuova ed è comunemente utilizzata dalle banche del sangue per controllare le donazioni. Invece di fare l'analisi del sangue dei singoli donatori, più campioni vengono mescolati e viene fatta un'unica ricerca per individuare la presenza nel campione così ottenuto di eventuali componenti indesiderati. Se l'esame risulta negativo, tutti le donazioni possono essere accettate, riducendo drasticamente tempo e costo delle analisi di controllo. Ovviamente  se il risulato dovesse risultare positivo, bisognerà comunque fare le analisi per tutti i singoli campioni, in modo da scartare le donazioni che risultassero fuori standard.

Il calcolo del numero ottimale di campioni da mescolare dipende da vari fattori e può essere facilmente eseguito sulla base di semplici modelli matematici. In una situazione come quella degli Stati Uniti, dove in molti Stati stiamo assistendo ad una ripresa dei nuovi contagi, poter testare con una singola analisi PCR molti pazienti può semplificare i processi di controllo, specialmente quando si ha a che fare con gruppi di persone che si trovano in situazioni di particolare rischio, ma non manifestano sintomi evidenti della malattia.

L'applicazione della tecnica del pool testing alla ricerca del SARS-CoV-2 è stata sviluppata inizialmente da alcuni gruppi tedeschi, ma oggi gli Stati Uniti potrebbero decidere di usarla su larga scala. Maggiori dettagli sulla ottimizzazione della tecnica di pool testing alla ricerca del SARS-CoV-2 possono essere trovati qui:

A. Cherif, N. Grobe, X. Wang et al.:"Simulation of Pool Testing to Identify Patients With Coronavirus Disease 2019 Under Conditions of Limited Test Availability", JAMA Netw Open. 2020;3(6):e2013075  doi:10.1001/jamanetworkopen.2020.13075

Chissà se l'idea di fare pool testing su larga scala non sia venuta al Prof. Fauci dopo aver ascoltato il suo Capo durante un recente comizio a Tulsa quando affermava (scherzando) che avrebbe dato ordine di ridurre il numero di tamponi, così si sarebbe ridotto anche il numero dei nuovi positivi. 

giovedì 25 giugno 2020

Nuovi focolai ovunque: dobbiamo incominciare a preoccuparci?

Dopo il caso segnalato pochi giorni fa a Bolzano, la cronaca riporta di un numero crescente di nuovi focolai di diffusione del virus, spesso associati alla presenza di cittadini stranieri. Non sono mancati coloro che rilanciano stucchevoli polemiche sui "migranti che portano il Covid-19", dimenticando che almeno 300.000 italiani si sono infettati a vicenda durante questa epidemia. La situazione che stiamo affrontando è nuova per l'Italia, ma è già stata sperimentata dai Paesi che sono usciti dalla fase acuta dell'epidemia prima dell'Italia (Cina e Corea del Sud per esempio). Situazioni analoghe sono state recentemente segnalate in Germania. Da un punto di vista puramente numerico possiamo fare alcune semplici considerazioni:
  1. Durante la fase acuta dell'epidemia in Italia (fine marzo) in Italia si registravano circa 4000 nuovi casi di contagio al giorno. I focolai di cui parliamo oggi riguardano al massimo poche decine di persone. A fine marzo sarebbero passati praticamente inosservati.
  2. A livello mondiale la pandemia di Covid-19 non ha ancora raggiunto il punto di massima diffusione giornaliera (ve lo ricordate il famoso "picco" di cui discutevamo in Italia a fine marzo?). Ad oggi ci sono circa 10 milioni di persone contagiate sparse in tutti i continenti. Anche per chi, come l'Italia, sta uscendo dall'epidemia, il rischio di re-importare il virus dall'estero non è mai stato così alto (molto più alto di quanto non fosse a gennaio quando il virus era sostanzialmente localizzato solo in Cina). Questo problema sarà critico per l'Italia specialmente quando torneranno i turisti stranieri che ancora latitano.
  3. Se il virus avesse fatto harakiri, come sostengono taluni, tutti questi nuovi focolai non ci sarebbero. La stagione estiva ci aiuta a individuare i nuovi casi perché, in assenza dei tipici mali di stagione invernali, anche le persone che abbiano solo lievi sintomi sono immediatamente sottoposte a tampone. Questa tregua è destinata a finire da ottobre in poi, quando raffreddori e influenze ricominceranno a circolare.
  4. Rispetto a fine febbraio, i medici hanno imparato a gestire meglio i pazienti Covid-19 e taluni farmaci, ancorché non risolutivi, hanno comunque mostrato una certa efficacia, specialmente nelle forme più acute. Questo ci aiuta senz'altro a ridurre i danni prodotti dal virus e a evitare che i nuovi focolai degenerino.
  5. La cosa importante da fare è quella di non abbassare la guardia, senza alimentare catastrofismi, ma con la chiara consapevolezza dei rischi. Tutti speriamo ardentemente che SARS-CoV-2 sparisca all'improvviso, ma nessuno può ragionevolmente escludere l'arrivo di una seconda ondata. Dobbiamo evitare di ripetere gli errori fatti a gennaio, quando il virus era già tra noi e nessuno lo cercava. Quindi il controllo dei focolai (piccoli o grandi che siano) deve essere rigoroso.

Ma questi anticorpi quanto durano?

Nature Medicine ha recentemente pubblicato un articolo che riporta uno studio fatto su alcuni pazienti che erano stati ricoverati dell'ospedale universitario cinese di Chongqing dopo aver contratto il virus SARS-CoV-2. L'articolo originale lo potete trovare qui:

Long, Q., Tang, X., Shi, Q. et al. Clinical and immunological assessment of asymptomatic SARS-CoV-2 infections. Nat Med (2020). DOI 10.1038/s41591-020-0965-6

L'articolo discute, in particolare, di un gruppo di 37 pazienti che erano stati ricoverati pur non manifestando sintomi apparenti, confrontato con un gruppo di analoghe dimensioni di pazienti sintomatici. I pazienti sono stati seguiti per alcune settimane dopo la loro dimissione dall'ospedale per monitore la presenza di anticorpi al SARS-CoV-2. 

Notiamo subito che non si tratta di un numero di casi particolarmente numeroso e le conclusioni dell'articolo devono essere quindi trattate con una certa cautela. Tuttavia, se l'ipotesi sostenuta dagli Autori fosse confermata non sarebbe una buona notizia. Sembra infatti che gli anticorpi che rimangono nei pazienti guariti (tornati virologicamente negativi) decadano abbastanza velocemente con il passare del tempo. Per le altre epidemie note da Cornonavirus (SARS-CoV-1 e MERS-CoV) c'era evidenza che la protezione anticorpale durasse per almeno un anno. Per i guariti da Covid-19 il livello di anticorpi sembra scendere sensibilmente entro due o tre mesi. Servono ovviamente altri studi ed, in particolare, non c'è ancora stato il tempo materiale per condurre i cosiddetti studi longitudinali, ovvero di seguire gli stessi pazienti per un adeguato numero di mesi. Tuttavia se i tempi di decadimento fossero così rapidi come ipotizzato dagli Autori, anche la famosa immunità di gregge verrebbe messa in seria discussione. Senza contare le implicazioni sullo sviluppo di un vaccino e - nel breve periodo - l'impatto sulle indagini sierologiche che, se fatte troppo tardi, potrebbero dare risultati poco utili anche solo per capire quale sia stata l'effettiva prevalenza del virus.

Insomma, ancora una volta, SARS-CoV-2 si rivela essere un puzzle difficilissimo da comporre.

La sanità-azienda ed i buro-manager

L’arcivescovo Lauro Tisi nella sua lettera alla comunità in occasione della festa patronali di San Vigilio ha richiamato alla nostra attenzione il valore non negoziabile della vita, per tutti anche per i più fragili. Tra i tanti spunti di riflessione, la lettera di Mons. Tisi mette bene in evidenza (pag. 8) come il modello della Sanità pubblica uniformato a certi stereotipi aziendalistici rischi di soffocare i fondamenti stessi del vivere umano nella vana ricerca di obiettivi di falsa efficienza.
 
La direttiva con cui APSS Trento chiedeva ai medici di non ricoverare negli ospedali i malati di Covid-19 provenienti dalle RSA è solo un esempio. Di fronte all’emergenza, si proclamava ad alta voce che tutti avrebbero avuto accesso alle cure, ma di fatto si stabiliva una priorità, mettendo in seconda fila coloro che “tanto sarebbero morti comunque entro poche settimane" (mesi o anni, aggiungo io).

L’epidemia di Covid-19 da cui stiamo faticosamente uscendo ha messo brutalmente in evidenza la vacuità dei modelli a cui si è ispirata la Sanità pubblica italiana nel corso degli ultimi 10-20 anni. L’idea di un servizio sanitario universalistico che curi tutti indipendentemente dalle loro condizioni economiche e sociali è stata progressivamente abbandonata per abbracciare modelli sempre più aziendalistici. 
 
Il Servizio è stato trasformato, anche dal punto di vista nominale, in Azienda. È stato tolto potere decisionale a coloro che hanno competenza e vocazione (medici) per trasferirlo a manager di varia estrazione che spesso dimostrano di avere  una visione della Sanità considerata come un servizio alla stregua di tanti altri. Questi manager della Sanità pubblica talvolta si presentano convocando lunghe riunioni in cui fanno “operazione ascolto”. Subito dopo, piazzano all’interno delle strutture un manipolo di loro fedelissimi il cui unico scopo è quello di assumere il controllo della macchina amministrativa. La fase successiva è quella della “riorganizzazione” in cui si cerca di comprimere i costi talvolta oltre ogni ragionevole limite, salvo poi spendere cifre folli per investimenti di scarsa utilità che soddisfino le esigenze elettorali dei loro referenti politici. Spesso il tutto è accompagnato da operazioni di facciata volte ad esaltare virtù inesistenti come talvolta accade – purtroppo aggiungo io – con superficiali operazioni di certificazione (che sarebbero molto utili se andassero oltre il puro maquillage)

Quando poi la situazione si fa dura – vedi Covid-19 – dietro a taluni manager della Sanità pubblica rispunta la vera natura del burocrate, il buro-manager appunto. Come certi pessimi burocrati, i buro-manager sono sempre pronti a scaricare su altri le loro colpe e prontissimi all’auto-assoluzione. Insomma dei veri manager hanno certamente gli stipendi, ma quanto a capacità di assumersi responsabilità e di riconoscere i loro errori spesso latitano.

Siccome, come dicevano i nostri nonni “il pesce incomincia a puzzare dalla testa” credo che una seria riflessione sul futuro della Sanità pubblica non potrà che partire dalle figure di vertice. Ovviamente qui non si tratta solo di licenziare qualche buro-manager particolarmente inconsistente, ma di ripensare al modello organizzativo nel suo complesso. Abbiamo di fronte sfide impegnative con una società che invecchia progressivamente (Covid-19 permettendo!) ed una Medicina che apre scenari di cura fino a poco tempo fa insperati, ma con costi talvolta proibitivi. Dare tutto a tutti sarà sempre più difficile, bisognerà trovare dei compromessi che tengano conto delle diverse esigenze e questo discorso dovrà essere affrontato con chiarezza, competenza e trasparenza. Chi gestirà la Sanità pubblica dovrà far argine alle richieste insensate che dovessero arrivare dalla politica e rendere conto puntualmente a tutta la comunità delle scelte fatte.  
 
Da questo punto di vista il trauma causato dall'epidemia di Covid-19 può rappresentare una occasione irripetibile per rimettere la Sanità pubblica al centro dell’attenzione e per trovare modelli organizzativi che partano dalla vera competenza e permettano di recuperare quel senso del bene comune che, al momento, sembra latitare.

lunedì 22 giugno 2020

La pandemia e l'Alto Adige

Questa mattina l'Alto Adige che si illudeva di essere ormai prossimo a "contagio zero" e aveva drasticamente ridotto il numero dei tamponi ha avuto un brusco risveglio. Pur avendo effettuato solo 222 tamponi, sono stati trovati undici nuovi contagiati, tutti appartenenti allo stesso nucleo famigliare, a quanto parte contagiati da un membro della famiglia che era appena rientrato da un viaggio all'estero (in un Paese extraeuropeo, dove esattamente non è ancora noto). 

Sulla base delle poche notizie disponibili, sembrerebbe  un classico caso di re-importazione del virus, non sorprendente quando ricordiamo che la pandemia di Covid-19 ha già registrato, a livello mondiale, quasi 9 milioni di contagi e quasi mezzo milione di decessi. Paesi come la Cina o la Corea del Sud che avevano controllato la prima ondata del virus prima degli altri, hanno già registrato da mesi situazioni di questo tipo. 

Non è facile evitare i contagi di importazione, a meno che non si ricorra a severe misure di quarantena per chi proviene dall'estero. Operazione complessa sia dal punto di vista pratico che politico (nessun Paese vuole sentirsi attribuire l'etichetta dell'untore!). Ancora più difficile in Italia dove si sta cercando disperatamente di far ripartire il turismo che proprio negli Stati extra-europei ha importanti riserve di potenziali clienti.

Segnalazione. Editoriale di Riccardo Luna: dieci domande sulla app IMMUNI

In un editoriale apparso questa mattina Riccardo Luna si domanda come mai solo 3 milioni di italiani abbiano fin qui scaricato la app IMMUNI, mentre in Germania una analoga app resa disponibile qualche giorno dopo IMMUNI abbia già oltre 10 milioni di utenti attivi. Potete trovare l'editoriale di Riccardo Luna qui:


Alle considerazioni di Riccardo Luna aggiungo una mia valutazione sulla totale scemenza di aver cercato di dare un colore politico ad una applicazione di pubblica utilità. Ad esempio, in Trentino, non ho mai sentito le Autorità politiche provinciali ed i vertici di APSS spiegare ai cittadini l'importanza di scaricare la app. Forse si temono rappresaglie da parte dei capi politici padani?

domenica 21 giugno 2020

L'epidemia degli altri: nuovi focolai in Germania

Negli ultimi giorni la Germania ha incominciato a mostrare segnali di una sensibile ripresa della circolazione del Covid-19. La media nazionale tedesca si attesta a circa 3,9 nuovi contagi per ogni 100.000 abitanti, di poco superiore rispetto al dato medio italiano che, al 14 giugno, era pari di 3,05 nuovi contagi per ogni 100.000 abitanti). Tuttavia, in Germania ci sono alcuni focolai particolarmente intensi, così come si evince dalla mappa che ho tratto dal rapporto odierno del Robert Koch Institut.

Il rapporto RKI segnala un distretto con incidenza settimanale molto critica (più di 200 nuovi casi settimanali per ogni 100.000 abitanti) e due distretti "arancioni" con incidenza settimanale compresa tra 25 e 50 nuovi casi per ogni 100.000 abitanti. Per confronto, ricordo che l'ultimo dato settimanale della Lombardia è di circa 12 nuovi casi per ogni 100.000 abitanti.Va tuttavia tenuto conto che la mappatura del territorio tedesco (Distretti) è molto più dettagliata rispetto a quella italiana (Regioni e Province autonome). Questo comporta, per l'Italia, un significativo effetto di diluizione dei dati nel caso in cui un focolaio sia ben localizzato.

Secondo notizie di stampa, il maggior numero di nuovi casi sarebbero stati legati ad un focolaio localizzato in uno stabilimento di macellazione della Renania Settentrionale-Vestfalia. Non è la prima volta che i macelli tedeschi sono colpiti da intensi focolai di Covid-19. Le persone contagiate sono, in maggioranza, operai immigrati provenienti dall'Europa orientale. Le particolari condizioni di lavoro (e di sfruttamento) di questi operai sarebbero alla base della facile diffusione del virus all'interno dei macelli tedeschi. A dimostrazione del fatto che spesso i tedeschi fanno la lezione agli altri, ma qualche volta dovrebbero anche fare più attenzione a cosa succede a casa loro.

La presenza del picco è ben evidenziata nel grafico che rappresenta i valori dei nuovi contagi, utilizzato per il calcolo dell'indice di trasmissione del virus R. Ricordiamo che la Germania esegue un unico calcolo per tutto il territorio nazionale, ma lo fa con una tecnica detta di "nowcasting" che permette di avere i risultati con un ritardo non superiore a 4-7 giorni (contro le due settimane tipiche del metodo adottato dal nostro Istituto Superiore di Sanità). Questo ci fa capire quanto sia importante avere la stima di R al più presto possibile. Se arriva troppo tardi, è un dato che interessa solo agli epidemiologi, ma non è di nessuna utilità per la gestione della Salute pubblica. Il dato di R stimato oggi va da 2,03 (1,60 - 2,49 al 95% di accuratezza) a 2,88 (2,16 - 3,73 al 95% di accuratezza) a seconda del metodo di stima (7 o 4 giorni). Si tratta comunque di un dato piuttosto allarmante e, in questo momento, le Autorità sanitarie tedesche hanno già reintrodotto alcuni lockdown selettivi per riportare la situazione sotto controllo.

Nella figura qui sotto è riportato l'andamento dell'indice di trasmissione in Germania, nel corso dell'ultimo mese. Il valore è stimato con media a 4 giorni (punti blu) oppure a 7 giorni (punti rossi).
Fonte dati: Robert Koch Institut
 
L'impennata fatta registrare dall'indice di trasmissione del contagio in Germania nel corso degli ultimi giorni è ben visibile, pur in presenza di barre di errore significativamente ampie. La media a 7 giorni (punti rossi) smorza le fluttuazioni, ma ovviamente risponde più lentamente rispetto alla media a 4 giorni (punti blu). L'ultima stima disponibile è riferita al 17 giugno per la media a 4 giorni ed al 16 giugno per la media a 7 giorni. Le stime degli ultimi giorni sono caratterizzate da un più ampio margine di errore perché i nuovi contagi sono stimati con il metodo del nowcasting.

L'ambiguità di certi dati sperimentali

Questi quattro mesi di pandemia ci hanno abituato ad un vero e proprio bombardamento di dati sperimentali. Giornali e televisioni sono prodighi nel presentarci tabelle, grafici ed indicatori statistici nella ingenua presunzione che una dato sperimentale – di per sé – possa essere utilizzato come prova inconfutabile delle più divergenti opinioni. Purtroppo la faccenda non è così semplice perché di fronte a qualsiasi dato sperimentale, prima di trarre conclusioni, dobbiamo domandarci quanto il dato sia effettivamente affidabile. In generale, è già difficile acquisire dati sperimentali privi di errori sistematici quando si opera in laboratorio, dove gli esperimenti possono essere ripetuti a piacimento ed in condizioni controllate. È facilmente comprensibile come, nel caso di una pandemia, le cose siano molto più difficili. Operiamo in situazioni (speriamo) irripetibili e dobbiamo accontentarci dei dati che riusciamo ad ottenere.

Il Corriere della Sera, riporta un dato che potrebbe essere definito “un esempio da manuale” di come sia difficile acquisire dati affidabili durante lo sviluppo di una epidemia. L’articolo si intitola “Lombardia, boom di pazienti «debolmente positivi»: ora sono il 50%”. I dati sperimentali discussi nell’articolo sono quelli della figura mostrata qui sotto


© Corriere delle Sera
Come giustamente fatto notare nell’articolo, l’argomento sta attraendo molta attenzione nell’opinione pubblica e fa riferimento alla crescente frazione di nuovi positivi che non mostrano praticamente sintomi e che hanno una carica virale molto bassa. Una dimostrazione palese che il SARS-CoV-2 ormai si è ridotto ad una forma poco aggressiva? In realtà la situazione è un po' più complicata di quanto sembri, anche alla luce di quanto già descritto nella letteratura scientifica internazionale, in particolare riprendendo alcuni elementi di discussione introdotti - a suo tempo - da parte di gruppi di ricerca della Corea del Sud che questo problema lo ha affrontato quando ancora l'Italia si trovava nella fase acuta della epidemia.

Per capire meglio come stanno le cose dobbiamo aprire una parentesi ed analizzare un pochino più in dettaglio come si fanno i cosiddetti tamponi per verificare se un paziente sia virologicamente positivo. Senza entrare in troppi dettagli tecnici, basterà ricordare che il campione naso-faringeo prelevato dal paziente sotto esame, prima della vera e propria misura deve essere trattato con i famosi “reagenti” per subire quello che in gergo tecnico viene chiamato Reazione a Catena della Polimerasi (PCR). Tale processo consente l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici ed utilizza reagenti (primer oligonucleotidici e sonda) che sono specificamente scelti per amplificare regioni specifiche del SARS-CoV-2, in modo da ridurre al minimo la probabilità di falsi positivi dovuti alla presenza nel campione di altri Coronavirus. Solo dopo il processo di amplificazione, viene fatta la vera e propria misura e la risposta è di tipo (quasi) digitale: Si, No, forse! In pratica i diversi campioni forniscono risultati raggruppabili in cluster ben identificati. C’è comunque una certa frazione di campioni incerti perché troppo alti per essere classificati come negativi, ma troppo bassi per essere certamente positivi. In questo caso il tampone viene ripetuto fino a che non si ottiene un risultato certo.

La prima conclusione che possiamo trarre è che, in generale, non è semplice sapere esattamente quale sia la carica virale dei pazienti positivi. Le metodologie analitiche utilizzate sono ottimizzate per ridurre al minimo il tempo di trattamento dei dati e per dare risposte “digitali”. Solo grazie ad un accurato (e non semplice) processo di calibrazione è possibile arrivare ad informazioni di carattere quantitativo ovvero quale sia l’effettiva carica virale dei pazienti analizzati. Quindi, i dati sulla effettiva carica virale dei pazienti positivi devono essere presi con una certa cautela, a meno che non provengano da laboratori che la calibrazione l’hanno fatta in modo affidabile.

L’aspetto più rilevante è comunque legato ai cosiddetti positivi con carica virale bassa e poco o nulla contagiosi. Poiché il metodo analitico amplifica sezioni degli acidi nucleici, il risultato può essere positivo anche per pazienti che abbiano in circolazione non virus completi, ma solo loro frammenti. La cosa può essere molto rilevante per pazienti che siano stati infettati molto tempo fa e ha un impatto fondamentale sull’aspetto della contagiosità. Infatti per infettare un’altra persona ci vogliono virus integri e non loro frammenti (gli stessi, ad esempio, che sono stati rilevati nelle acque di scarico di grosse città del Nord-Italia). Quindi molti dei pazienti che vengono rilevati oggi, potrebbero essere quelli che avrebbero dovuto fare il tampone uno, due o tre mesi fa (e non lo hanno potuto fare). Nel frattempo, tali pazienti sono guariti dal Covid-19 e non sono più contagiosi, anche se hanno ancora nei loro fluidi naso-faringei frammenti di virus. Spesso tali pazienti sono sottoposti a tampone dopo essere stati rilevati positivi ad un esame sierologico. Anche i famosi casi di re-infezione (pazienti guariti, tornati positivi dopo uno o due mesi) possono essere spiegati con analoghe motivazioni.

Fin qui gli aspetti tecnici, legati ai limiti della metodologia analitica. C’è poi un aspetto metodologico da non trascurare. Fino ad inizio aprile i tamponi si facevano a malapena a coloro che venivano ricoverati in ospedale. Questo succedeva in Lombardia, ma anche nel nostro Trentino. Molti sono stati lasciati a casa (o nelle RSA) senza fare il tampone fino a che le loro condizioni non si sono aggravate a tal punto da essere ricoverati in ospedale (o passare direttamente a miglior vita come purtroppo è successo in molte RSA). A quel tempo, solo calciatori di serie A, parlamentari ed altri pochi fortunati potevano fare il tampone anche se non manifestavano sintomi particolarmente gravi. Solo da aprile in poi è iniziato a crescere il numero di tamponi e sono stati fatti tamponi a raggio progressivamente crescente, includendo anche persone con pochi sintomi (o addirittura asintomatiche) e presumibilmente con carica virale minore. Quindi a febbraio-marzo i positivi con carica virale bassa non si trovavano, semplicemente perché nessuno li cercava.

Come vedete l’andamento crescente della curva mostrata nella figura pubblicata dal Corriere della Sera non significa necessariamente che durante questi ultimi mesi il virus sia diventato meno aggressivo e produca progressivamente sempre più contagiati con bassa carica virale. Il dato può essere spiegato tenendo conto dei limiti della tecnica analitica e del cambiamento dei criteri di somministrazione del tampone avvenuto nel corso dell'epidemia. Quale sia la spiegazione vera io non sono in grado di dirlo. Ma non lo può neppure sapere chi si pavoneggia nei salotti televisivi presentando come certe teorie non dimostrate.

venerdì 19 giugno 2020

V rapporto ISS sulla fase 2: molti aggettivi, pochi indicatori


Qui potete trovare il quinto rapporto sull'evoluzione della epidemia di SARS-CoV-2 in Italia durante la cosiddetta Fase 2. I dati si riferiscono alla settimana che andava dall'otto al 14 giugno, incluso. Qui sotto è mostrata una tabella che mostra l'andamento della densità di nuovi casi (nuovi contagi settimanali per ogni 100.000 abitanti) nelle Regioni del Nord Italia più le Marche.


Nuovi contagi/settimana x 100.000 abitanti
Regione 11-17 maggio 18-24 maggio 25-31 maggio 1-7 giugno 8-14 giugno
Lombardia 23,75 16,68 15,40 9,73 12,02
Piemonte 16,69 12,46 9,16 4,04 3,83
Emilia Romagna 9,35 6,32 4,82 2,11 2,96
Trentino 24,95 12,57 6,28 1,66 2,03
Liguria 15,03 6,13 4,84 2,90 1,87
P.A. Bolzano 2,82 1,51 0,94 0,94 1,69
Friuli V.G. 2,14 2,30 2,55 0,91 0,99
Val d’Aosta 9,55 6,37 4,77 2,39 0,80
Veneto 3,85 1,63 1,12 0,59 0,73
Marche 5,64 3,02 0,96 1,05 0,66

Notiamo un aumento abbastanza significativo dei nuovi contagi n Lombardia che tornano a due digit. Anche il Trentino registra un certo aumento, al momento non particolarmente preoccupante. A propositi della Lombardia, l'andamento dell'indice di trasmissione del contagio mostra un leggero calo (vedi figura qui sotto). Ricordiamo comunque che la stima di R viene fatta con cuirca due settimane di ritardo e quindi non riflette ancora l'aumento dei casi registrato nella seconda metà di giugno.
Andamento dell'indice di trasmissione del contagio stimato per la Regione Lombardia, nelle cinque settimane corrispondenti alla cosiddetta Fase 2
Quanto al rapporto in generale, aldilà del caso del Lazio dove è evidente l'effetto dei due recenti focolai registrati a Roma, non si segnalano andamenti di particolare rilievo. L'Istituto Superiore della Sanità è sempre prodigo di aggettivi nella descrizione della situazione, ma - come già fatto notare da altri - non ha mai reso pubblico il set completo dei 21 indicatori che le Regioni sono tenute a fornire per il monitoraggio della epidemia. Non è chiaro se questo atteggiamento dell'ISS serva a coprire carenze di talune Regioni che non forniscono i dati, oppure se sia una scelta voluta per evitare una discussione troppo apporfondita dei dati (a cominciare dal numero effettivo di tamponi utilizzati per la ricerca dei nuovi positivi). Aldilà delle dietrologie, non rendere pubblici tutti i dati sull'epidemia (anche quelli che interessano solo ai ricercatori e non sono d'interesse per il grande pubblico) riduce  la credibilità dell'operazione condotta dall'ISS e dal Ministero della Salute.

Un ultimo commento, riguarda l'andamento più recente dei nuovi contagi. C'è una sorta di mantra che viene ripetuto a vari livelli secondo il quale da almeno un mese i nuovi contagi rilevati corrisponderebbero comunque a persone con bassissima carica virale e quindi poco o nulla contagiose. Non c'è dubbio che il quadro clinico sia senz'altro migliorato rispetto a marzo-aprile, ma se tutti i contagiati oggi fossero poco o nulla contagiosi come fa il virus a continuare a circolare?