domenica 21 giugno 2020

L'ambiguità di certi dati sperimentali

Questi quattro mesi di pandemia ci hanno abituato ad un vero e proprio bombardamento di dati sperimentali. Giornali e televisioni sono prodighi nel presentarci tabelle, grafici ed indicatori statistici nella ingenua presunzione che una dato sperimentale – di per sé – possa essere utilizzato come prova inconfutabile delle più divergenti opinioni. Purtroppo la faccenda non è così semplice perché di fronte a qualsiasi dato sperimentale, prima di trarre conclusioni, dobbiamo domandarci quanto il dato sia effettivamente affidabile. In generale, è già difficile acquisire dati sperimentali privi di errori sistematici quando si opera in laboratorio, dove gli esperimenti possono essere ripetuti a piacimento ed in condizioni controllate. È facilmente comprensibile come, nel caso di una pandemia, le cose siano molto più difficili. Operiamo in situazioni (speriamo) irripetibili e dobbiamo accontentarci dei dati che riusciamo ad ottenere.

Il Corriere della Sera, riporta un dato che potrebbe essere definito “un esempio da manuale” di come sia difficile acquisire dati affidabili durante lo sviluppo di una epidemia. L’articolo si intitola “Lombardia, boom di pazienti «debolmente positivi»: ora sono il 50%”. I dati sperimentali discussi nell’articolo sono quelli della figura mostrata qui sotto


© Corriere delle Sera
Come giustamente fatto notare nell’articolo, l’argomento sta attraendo molta attenzione nell’opinione pubblica e fa riferimento alla crescente frazione di nuovi positivi che non mostrano praticamente sintomi e che hanno una carica virale molto bassa. Una dimostrazione palese che il SARS-CoV-2 ormai si è ridotto ad una forma poco aggressiva? In realtà la situazione è un po' più complicata di quanto sembri, anche alla luce di quanto già descritto nella letteratura scientifica internazionale, in particolare riprendendo alcuni elementi di discussione introdotti - a suo tempo - da parte di gruppi di ricerca della Corea del Sud che questo problema lo ha affrontato quando ancora l'Italia si trovava nella fase acuta della epidemia.

Per capire meglio come stanno le cose dobbiamo aprire una parentesi ed analizzare un pochino più in dettaglio come si fanno i cosiddetti tamponi per verificare se un paziente sia virologicamente positivo. Senza entrare in troppi dettagli tecnici, basterà ricordare che il campione naso-faringeo prelevato dal paziente sotto esame, prima della vera e propria misura deve essere trattato con i famosi “reagenti” per subire quello che in gergo tecnico viene chiamato Reazione a Catena della Polimerasi (PCR). Tale processo consente l’amplificazione di frammenti di acidi nucleici ed utilizza reagenti (primer oligonucleotidici e sonda) che sono specificamente scelti per amplificare regioni specifiche del SARS-CoV-2, in modo da ridurre al minimo la probabilità di falsi positivi dovuti alla presenza nel campione di altri Coronavirus. Solo dopo il processo di amplificazione, viene fatta la vera e propria misura e la risposta è di tipo (quasi) digitale: Si, No, forse! In pratica i diversi campioni forniscono risultati raggruppabili in cluster ben identificati. C’è comunque una certa frazione di campioni incerti perché troppo alti per essere classificati come negativi, ma troppo bassi per essere certamente positivi. In questo caso il tampone viene ripetuto fino a che non si ottiene un risultato certo.

La prima conclusione che possiamo trarre è che, in generale, non è semplice sapere esattamente quale sia la carica virale dei pazienti positivi. Le metodologie analitiche utilizzate sono ottimizzate per ridurre al minimo il tempo di trattamento dei dati e per dare risposte “digitali”. Solo grazie ad un accurato (e non semplice) processo di calibrazione è possibile arrivare ad informazioni di carattere quantitativo ovvero quale sia l’effettiva carica virale dei pazienti analizzati. Quindi, i dati sulla effettiva carica virale dei pazienti positivi devono essere presi con una certa cautela, a meno che non provengano da laboratori che la calibrazione l’hanno fatta in modo affidabile.

L’aspetto più rilevante è comunque legato ai cosiddetti positivi con carica virale bassa e poco o nulla contagiosi. Poiché il metodo analitico amplifica sezioni degli acidi nucleici, il risultato può essere positivo anche per pazienti che abbiano in circolazione non virus completi, ma solo loro frammenti. La cosa può essere molto rilevante per pazienti che siano stati infettati molto tempo fa e ha un impatto fondamentale sull’aspetto della contagiosità. Infatti per infettare un’altra persona ci vogliono virus integri e non loro frammenti (gli stessi, ad esempio, che sono stati rilevati nelle acque di scarico di grosse città del Nord-Italia). Quindi molti dei pazienti che vengono rilevati oggi, potrebbero essere quelli che avrebbero dovuto fare il tampone uno, due o tre mesi fa (e non lo hanno potuto fare). Nel frattempo, tali pazienti sono guariti dal Covid-19 e non sono più contagiosi, anche se hanno ancora nei loro fluidi naso-faringei frammenti di virus. Spesso tali pazienti sono sottoposti a tampone dopo essere stati rilevati positivi ad un esame sierologico. Anche i famosi casi di re-infezione (pazienti guariti, tornati positivi dopo uno o due mesi) possono essere spiegati con analoghe motivazioni.

Fin qui gli aspetti tecnici, legati ai limiti della metodologia analitica. C’è poi un aspetto metodologico da non trascurare. Fino ad inizio aprile i tamponi si facevano a malapena a coloro che venivano ricoverati in ospedale. Questo succedeva in Lombardia, ma anche nel nostro Trentino. Molti sono stati lasciati a casa (o nelle RSA) senza fare il tampone fino a che le loro condizioni non si sono aggravate a tal punto da essere ricoverati in ospedale (o passare direttamente a miglior vita come purtroppo è successo in molte RSA). A quel tempo, solo calciatori di serie A, parlamentari ed altri pochi fortunati potevano fare il tampone anche se non manifestavano sintomi particolarmente gravi. Solo da aprile in poi è iniziato a crescere il numero di tamponi e sono stati fatti tamponi a raggio progressivamente crescente, includendo anche persone con pochi sintomi (o addirittura asintomatiche) e presumibilmente con carica virale minore. Quindi a febbraio-marzo i positivi con carica virale bassa non si trovavano, semplicemente perché nessuno li cercava.

Come vedete l’andamento crescente della curva mostrata nella figura pubblicata dal Corriere della Sera non significa necessariamente che durante questi ultimi mesi il virus sia diventato meno aggressivo e produca progressivamente sempre più contagiati con bassa carica virale. Il dato può essere spiegato tenendo conto dei limiti della tecnica analitica e del cambiamento dei criteri di somministrazione del tampone avvenuto nel corso dell'epidemia. Quale sia la spiegazione vera io non sono in grado di dirlo. Ma non lo può neppure sapere chi si pavoneggia nei salotti televisivi presentando come certe teorie non dimostrate.

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