sabato 31 luglio 2021

Per fortuna hanno messo l'indice Rt in soffitta

Pochi ci hanno fato caso, ma secondo gli ultimi dati resi noti ieri dall'Istituto Superiore di Sanità il Trentino avrebbe fatto registrare uno degli indici Rt più alti d'Italia: 2,27 con un intervallo di confidenza al 95% che va da 1,72 a 2,86. 

Peggio del Trentino ha fatto solo la Sardegna (2,44 di media, con intervallo di confidenza 2,25 - 2,62). Le altre Regioni/PPAA hanno evidenziato un indice di trasmissione dei contagi quasi sempre superiore ad 1, ma minore rispetto al dato del Trentino. I valori sono stati stimati nella settimana che terminava lo scorso 14 luglio, quindi nel pieno dei campionati europei di calcio, con i relativi assembramenti.

Stima dell'indice Rt elaborata dall'ISS. I dati si riferiscono alla settimana che terminava lo scorso 14 luglio. Il dato del Trentino è evidenziato con il cerchio rosso

Se fossero state ancora in vigore le vecchie regole, il Trentino sarebbe finito direttamente in zona rossa. Per fortuna, è stato deciso di mettere l'indice Rt in soffitta e di guardare al dato dei ricoveri.

Chi segue questo blog ricorderà che personalmente ho sempre espresso forti riserve sull'utilizzo dell'indice Rt per valutare l'attivazione di misure di "distanziamento sociale". Non ho mai capito come l'ISS abbia potuto dare tanta enfasi a questo parametro che può essere stimato solo con grande ritardo e che non ha alcun valore predittivo. 

Vorrei ricordare che se si fossero usati da sempre i dati dei ricoveri, il Trentino, nel novembre scorso, non avrebbe potuto attuare la sua discutibile strategia basata sulla ritardata verifica con tampone molecolare dei positivi antigenici. In questo modo, la maggioranza dei positivi sono spariti dalle statistiche ufficiali, producendo anche una artificiale ribasso dell'indice Rt. Così il Trentino a novembre è rimasto in zona gialla, mentre i reparti Covid degli ospedali trentini si riempivano a dismisura.

Se le nuove regole fossero state applicate già nel novembre 2020, il Trentino sarebbe stato costretto ad attuare restrizioni simili a quelle introdotte nel vicino Alto Adige e - dati ISTAT alla mano - forse si sarebbero potute salvare molte vite umane.


venerdì 30 luglio 2021

Cosa ha scritto CDC a proposito della variante Delta?

La stampa internazionale ha dato ampio risalto ad uno scoop del Washington Post che ha reso noto i contenuti di un documento, dedicato alla variante Delta, elaborato dal CDC, l'organismo americano che si occupa della prevenzione e del controllo delle malattie. In realtà, più che di un documento, si tratta di una semplice presentazione proiettata durante un seminario interno (e da qualcuno passata al giornale che l'ha pubblicata).

Aldilà dei titoli altisonanti della stampa americana ed europea, la presentazione non contiene novità di particolare rilievo. Le informazioni sono tutte ben note e gran parte di loro sono già state discusse anche in questo blog. Chi volesse leggere la presentazione la può trovare qui.

La presentazione CDC ha un senso particolare se si tiene conto che gli USA, prima dell'arrivo della variante Delta, avevano tolto qualsiasi obbligo di indossare la mascherina per tutte le persone vaccinate. Con l'arrivo della nuova variante, molto più contagiosa rispetto ai ceppi precedenti, questa misura si è rilevata poco prudente ed ora le Autorità sanitarie americane sono costrette a raccomandare l'obbligo della mascherina per tutti (vaccinati inclusi) all'interno dei locali chiusi. Non a caso, una parte significativa della presentazione elaborata da CDC è dedicata proprio al tema della comunicazione per evitare che l'opinione pubblica percepisca la falsa impressione che la variante Delta "buchi" i vaccini rendendoli inutili. 

In realtà, come ben sappiamo, i vaccini proteggono molto bene contro i contagi gravi, anche se generati dalla variante Delta. La protezione è inferiore - ma non nulla - rispetto a qualsiasi forma di contagio. La presentazione CDC illustra tutti i dati disponibili che, almeno fino a questo momento, sono ancora soggetti ad una certa variabilità. 

I dati peggiori - soprattutto per quanto riguarda i contagi senza sintomi gravi - sono gli ultimi raccolti in Israele, ma c'è il sospetto che tali dati siano stati condizionati anche dal lungo tempo passato tra le prime vaccinazioni fatte in Israele e l'arrivo della variante Delta. Tale congettura sembra essere rafforzata dall'osservazione che la probabilità di re-infezione con la variante Delta, per coloro che hanno già contratto la Covid-19, diventa apprezzabile solo dopo 6 mesi dal primo contagio. Insomma, l'arrivo della variante Delta in Israele potrebbe essere avvenuta proprio nel momento in cui i primissimi vaccinati incominciavano a perdere almeno una parte della copertura indotta dal vaccino. Una eventuale sovrapposizione dei due effetti potrebbe aver reso meno agevole la comprensione dei dati epidemiologici.

Aldilà delle questioni di dettaglio relative ai dati israeliani, non c'è comunque alcun dubbio sulla necessità che tutti - anche i vaccinati - indossino la mascherina all'interno dei luoghi chiusi. In Italia questa regola non è mai stata abbandonata (almeno sulla carta) e quindi - almeno su questo punto - il nostro Paese non dovrebbe avere particolari preoccupazioni.

In Israele sono partiti con la terza dose vaccinale per gli over-60. E in Italia?

Dopo lunghe discussioni, Israele ha deciso di autorizzare la somministrazione di un terza dose del vaccino Pfizer-BioNTech a tutti i cittadini di età superiore ai 60 anni

Israele è stato in assoluto il primo Stato a vaccinare i suoi cittadini ed i dati più recenti avevano fatto sospettare un calo della protezione offerta dalle due dosi vaccinali canoniche. Nessuna delle principali Autorità internazionali (FDA, EMA, ecc.) ha fin qui autorizzato la somministrazione della terza dose e alcuni dati sul calo della protezione riscontrato nei cittadini israeliani vaccinati sono stati duramente contestati da molti scienziati, anche nello stesso Stato di Israele.

Il Presidente Isaac Herzog e sua moglie Michal ricevono la terza dose vaccinale allo Sheba Medical Center. Tratto da The Times of Israel

Subito dopo sono stati vaccinati il leader dell'opposizione Benjamin Netanyahu e sua moglie Sara. Tratto da The Times of Israel

Anche se la questione è ancora oggetto di discussione, le Autorità sanitarie israeliane hanno comunque deciso di autorizzare la somministrazione della terza dose, non solo ad alcuni  pazienti specifici come, ad esempio, gli immunodepressi, ma a tutta la popolazione sopra i 60 anni. Alcuni avrebbero preferito aspettare fino a quando sarà disponibile una nuova versione del vaccino ottimizzata rispetto alla variante Delta, ma evidentemente il dato dei contagi ha spinto il Ministero della salute israeliano ad accelerare i tempi, utilizzando i vaccini attualmente disponibili.

Il Ministero della salute israeliano si è dato l'obiettivo di somministare la terza dose vaccinale a circa 1 milione e mezzo di cittadini israeliani over 60 nell'arco di soli 8 giorni.

Ancora una volta Israele si propone come una sorta di "laboratorio vivente" per la verifica sul campo delle strategie vaccinali anti-Covid. Difficile dire se la decisione israeliana troverà presto imitatori. Va detto che Israele ha iniziato la sua campagna vaccinale di massa nello scorso mese di dicembre e che già a gennaio era riuscito a vaccinare una fascia importante delle persone più anziane. 

In Italia, un analogo problema si potrebbe porre a breve per le persone ricoverate nelle RSA e per la parte più avanti con gli anni del personale sanitario, ovvero per coloro che hanno un  profilo di rischio più elevato e sono stati vaccinati per primi. I numeri non sono comunque così importanti e, anche se a settembre l'Italia dovesse decidere di seguire l'esempio israeliano, non ci saranno grosse difficoltà nè per il reperimento delle dosi vaccinali, nè per la loro somministrazione.

Aggiornamento sulla pandemia in Italia: andamento di fine luglio

Siamo ormai entrati nel pieno della stagione delle ferie estive e tutti gli indicatori relativi allo stato della pandemia in Italia mostrano una risalita. La variante virale Delta è ormai il ceppo virale largamente prevalente anche in Italia.

Per quanto riguarda i contagi, siamo tornati ai livelli di metà maggio. L'aumento rispetto alla settimana scorsa è stato significativo, ma meno violento rispetto a quanto è avvenuto nelle due settimane precedenti. Difficile dire se si tratti del segno di una prossima inversione di tendenza (analoga a quella vista recentemente in Gran Bretagna) o se sia esclusivamente dovuto alla fine dell'effetto amplificatore dei contagi legato agli assembramenti per il campionato europeo di calcio, avvenuti oltre due settimane fa (effetto che ha colpito prevalentemente i maschi di età inferiore ai 39 anni).

Andrebbe messo nel conto anche il fatto che molti, soprattutto giovani, sono diventati particolarmente riluttanti a sottoporsi al tampone per paura che una eventuale positività li costringa alla quarantena, interferendo con le vacanze. Questi effetti rendono più difficile capire quale sia l'esatta dinamica dei contagi. L'unica cosa certa è che i contagi stanno crescendo.

Andamento dei contagi in Italia. La linea blu indica il valore medio misurato su base settimanale

Il dato dei ricoveri è in aumento superando, complessivamente, la soglia dei 2.000 posti letto occupati. Circa il 10% sono posti di terapia intensiva:

Variazione settimanale del numero di posti letto occupati nei reparti Covid degli ospedali italiani. L'aumento percentuale osservato durante la scorsa settimana è stato il più ampio osservato dallo scorso mese di marzo

Nuovi ricoveri settimanali nei reparti Covid di terapia intensiva normalizzati rispetto ad un campione di 100 mila abitanti

Il dato nazionale dei nuovi ricoveri in terapia intensiva è più che raddoppiato rispetto al minimo di inizio luglio. Analogamente a quanto successe nell'estate del 2020, la situazione sembra essere più preoccupante al Centro-Sud, anche se i valori assoluti sono ancora bassi. Tuttavia, se non si invertirà al più presto la tendenza, alcune Regioni (ad esempio, Lazio, Calabria, Sicilia e Sardegna) potrebbero raggiungere rapidamente soglie di ricovero vicine a quelle che portano in zona gialla.

Il dato dei decessi mostra una lieve inversione di tendenza. Siamo ancora su livelli molto vicini al minimo, ma ormai anche i decessi stanno aumentando. D'altra parte, quando più persone vengono ricoverate in terapia intensiva, fatalmente si osserva - sia pure con un certo ritardo - anche un aumento dei decessi.

Andamento dei decessi settimanali normalizzato rispetto ad un campione di 100 mila abitanti. La linea blu tratteggiata indica il livello medio dei decessi che avvengono in Italia a causa degli incidenti stradali

Chi sono i cittadini americani che non vogliono farsi vaccinare?

In un post recente vi ho mostrato i risultati di un confronto tra il livello di vaccinazione e la tendenza  di voto nei diversi Stati americani. Si tratta di una analisi interessante, ma un po' troppo semplicistica perché pretende di spiegare un fenomeno complesso sulla base di un singolo indicatore di natura politica.

Per approfondire la questione può essere utile analizzare i risultati di una vasta indagine demografica sviluppata da CDC che ha analizzato le caratteristiche dei cittadini USA in relazione al loro atteggiamento rispetto al vaccino. L'analisi CDC mostra fortissime differenze che, solo in parte, coincidono con l'appartenenza a questo o quel partito politico. I risultati di questa analisi sono mostrati sinteticamente nella figura seguente:

Poco più del 18% dei cittadini americani non intendono farsi vaccinare. I dati sono stati analizzati su base demografica. Le barre rosse corrispondono alla percentuale di cittadini che non intendono farsi vaccinare. Tratto da CDC

Notiamo, prima di tutto, che oltre il 67% dei cittadini americani ha già ricevuto almeno una dose vaccinale. Un ulteriore 3% ha già deciso di fare il vaccino e poco più dell'11% appartiene alla categoria degli indecisi che tuttavia pensano di fare il vaccino prima o poi. Il rimanente 18,1% comprende  coloro che molto probabilmente o con certezza assoluta dichiarano di non volersi vaccinare.

Osservando la dipendenza dell'età, si nota - non sorprendentemente - che i cittadini sotto i 50 anni sono meno propensi a farsi vaccinare, mentre la percentuale di no-vax decresce velocemente con l'aumentare dell'età.

Può essere interessante analizzare le differenze etniche che sono dietro a questa scelta. Il minimo assoluto dei no-vax si trova tra i cittadini americani di origine asiatica (sono solo 2,6% del totale). Sul fronte opposto, il maggior numero di persone contrarie al vaccino si trova tra l'etnia AI/AN (American Indians and Alaska Natives). Si tratta di una minoranza numericamente esigua che è caratterizzata, in generale, da una forte incidenza di molte malattie e da una vita media largamente inferiore rispetto al resto del Paese. Anche nel caso della Covid-19 gli indiani d'America sembrano confermare un atteggiamento poco propenso alla prevenzione delle malattie.

Se andiamo ad analizzare il reddito e lo stile di vita dei cittadini americani, si nota che le persone più vaccinate si trovano tra i cittadini ad alto reddito che abitano nei grandi centri urbani. Viceversa i cittadini più poveri e coloro che abitano nelle zone rurali mostrano una maggiore avversione rispetto al vaccino. Paradossalmente - anche se la vaccinazione è gratuita - si trovano più no-vax tra la fascia di popolazione che non dispone di una assicurazione sanitaria e che - in caso di contagio - avrebbe maggiori difficoltà a farsi curare.

giovedì 29 luglio 2021

Le fake news sul plasma iperimmune

La tragica scomparsa del dottor Giuseppe De Donno ha finito per rilanciare la fake news secondo cui il plasma iperimmune sarebbe una cura efficace per la Covid-19, ma che tale terapia sarebbe stata volutamente stroncata per tutelare interessi economici "superiori". Taluni commentatori politici e guru no-vax non si sono fermati neppure davanti al dramma umano del dottor De Donno, arrivando a sostenere che in realtà il medico mantovano sarebbe stato la vittima di un complotto, mettendo  in dubbio anche le cause della sua scomparsa.

La storia del plasma iperimmune può essere compresa meglio tornando a quello che succedeva negli ospedali italiani durante i primi mesi del 2020. A causa di una pandemia inaspettata e completamente sconosciuta, i medici si sono improvvisamente trovati davanti ad una valanga di pazienti che arrivavano nei loro reparti, spesso in condizioni molto critiche. Lo sforzo fatto da medici e infermieri è stato enorme. Talvolta hanno dovuto combattere la pandemia senza poter disporre neppure delle più elementari forme di protezione e per capire quanto fosse difficile la situazione basterebbe ricordare il grande numero di coloro che hanno pagato con la vita il loro impegno per la cura dei malati. 

La mancanza di farmaci specifici ha portato molti medici a tentare cure di tipo "compassionevole". Di fronte a malati che rischiavano seriamente la vita sono stati provati farmaci approvati per altre malattie e trattamenti già applicati in passato per malattie simili. 

Il plasma iperimmune appartiene a quest'ultima categoria. In passato era già stato provato per il trattamento di Ebola  e della MERS ed è stato quindi naturale verificare il suo eventuale funzionamento con le persone contagiate da SARS-CoV-2. L'idea è molto semplice: si tratta di estrarre dal sangue di pazienti guariti dalla Covid-19 il siero contenente gli anticorpi specifici che sono stati sviluppati durante la malattia. Questo stesso siero iniettato nei nuovi malati potrebbe aiutarli a combattere l'infezione.

Durante quei mesi concitati di inizio 2020 sono stati molti gli annunci, amplificati dai mezzi di informazione, sulla scoperta di trattamenti più o meno risolutivi che avrebbero permesso di trattare la Covid-19. Uno di questi riguardava appunto il trattamento con plasma iperimmune sviluppato dal dott. De Donno e dai suoi colleghi a Mantova e poi diffuso, in via sperimentale, anche in molti altri ospedali italiani. Purtroppo l'annuncio del plasma iperimmune come trattamento definitivo per curare la Covid-19, talmente efficace da azzerare tutti i decessi, è stata una colossale fake news, diventata tale aldilà delle intenzioni del dottor De Donno. 

Una parte politica ha subito cercato di mettere il cappello sulla questione, sperando forse di far dimenticare le tante criticità nella gestione della pandemia che si erano verificate in Lombardia. Il risultato è stato quanto di più antiscientifico uno potesse immaginare: il dibattito sull'efficacia della cura si è spostato dalle sedi canoniche (riviste mediche e convegni scientifici) al dibattito televisivo e agli interventi sui social media. Il tutto è stato condito dall'immancabile complotto secondo cui la cura sarebbe stata osteggiata dalle multinazionali del farmaco perché avrebbe tolto mercato ai loro costosissimi farmaci ed agli (allora) futuri vaccini.

Guardando le cose in modo un po' più distaccato, si sarebbe potuto comprendere fin da subito che, in realtà, il metodo del plasma iperimmune soffre di molte limitazioni. La prima riguarda la selezione dei donatori che devono possedere un elevato titolo anticorpale. Solo una parte dei guariti da Covid-19 presenta queste caratteristiche ed un singolo donatore non può donare oltre una certa quantità di plasma. Da questo segue che - anche se il metodo funzionasse - ci sarebbe un problema di reperibilità del plasma, soprattutto nei momenti di forte risalita dei contagi. Ma anche ammesso di riuscire a trovare in modo illimitato plasma di buona qualità, il vero limite del trattamento è che serve a ben poco quando il paziente è già affetto da gravi complicanze. 

Lo stesso identico problema lo osserviamo con i numerosi farmaci che sono stati introdotti nel corso dell'ultimo anno, tutti basati sull'utilizzo di anticorpi neutralizzanti di sintesi. Questi farmaci. a differenza del plasma iperimmune, hanno una composizione anticorpale nota e ben definita. In tutte le sperimentazioni cliniche che sono state fatte si è verificato che i benefici di questi farmaci si osservano soltanto se vengono utilizzati per trattare i pazienti subito dopo il contagio, prima che insorgano eventuali complicanze.

La cosa è facilmente comprensibile: idealmente gli anticorpi che combattono il virus dovrebbero essere già presenti al momento del contagio, proprio per evitare che il virus si installi nell'organismo dell'ospite o che, almeno, non raggiunga polmoni od altri organi critici, rimanendo confinato nelle vie aeree superiori. Questo è esattamente ciò che succede nelle persone vaccinate le quali sviluppano una risposta immunitaria pronta a riconoscere e neutralizzare il virus, anche se non hanno mai contratto la malattia. 

Se somministriamo gli anticorpi dopo che la presenza del virus è stata evidenziata da un tampone positivo, può essere comunque troppo tardi perché il virus, nel frattempo, potrebbe essersi già diffuso all'interno dell'organismo. Se aspettiamo ulteriormente e somministriamo gli anticorpi quando si manifestano sintomi gravi è senz'altro troppo tardi perché ormai il virus è molto diffuso e la quantità di virus che gli anticorpi possono neutralizzare diventa trascurabile rispetto alla carica virale già presente nell'organismo del paziente. Inoltre gli anticorpi combattono il virus, ma nulla possono fare sugli effetti legati alle complicanze che sono già in atto.

Allora - uno si domanda - perché all'inizio del 2020 qualcuno ha ritenuto che il plasma iperimmune potesse essere la cura definitiva per la Covid-19? Anche qui dobbiamo tornare con la mente a quei giorni drammatici e alla spasmodica ricerca di qualche farmaco che ci aiutasse ad affrontare la situazione. 

I medici che si trovavano in prima linea dovevano essere pronti a cogliere qualsiasi spunto per cercare di individuare i metodi migliori per il trattamento dei malati. Tuttavia non avrebbero mai dovuto dimenticare che poche decine di casi osservati in una corsia d'ospedale possono far sperare che un certo farmaco funzioni, ma non sono assolutamente una prova del suo funzionamento su larga scala. Purtroppo la validazione di nuovi farmaci richiede procedure molto più complesse che, nel momento dell'emergenza pandemica, non sempre sono state rispettate. 

Bisogna innanzitutto che i pazienti vengano suddivisi in due gruppi di numerosità adeguata (per evitare eccessive fluttuazioni statistiche) e con caratteristiche similari per tutti i parametri che possono influenzare il risultato del test (età, genere, condizioni cliniche iniziali, presenza di co-morbilità, ecc.). Ad uno dei gruppi verrà dato il farmaco mentre all'altro gruppo verrà somministrato un placebo. Nessuno, nè i pazienti, nè i medici che li assistono, deve sapere a chi è stato somministrato il farmaco e a chi il placebo. Solo così viene garantita l'assoluta imparzialità del trattamento dei dati. Solo alla fine della sperimentazione si potrà sapere chi ha ricevuto il farmaco e chi il placebo e si potrà verificare l'eventuale efficacia del farmaco. Questa è esattamente la procedura seguita nella fase 3 dello sviluppo dei vaccini.

Non è un caso che tutti gli studi sul plasma iperimmune condotti in "doppio cieco" ed anche lo studio coordinato dall'italiana AIFA abbiano portato sostanzialmente alla medesima conclusione: 

"Non ci sono prove statisticamente attendibili che il plasma iperimmune funzioni per il trattamento dei casi gravi. Forse potrebbe essere utile per il trattamento preventivo di persone a rischio, purché sia somministrato nella fase immediatamente successiva alla scoperta del contagio e comunque ben prima che si manifestino sintomi gravi."

Possiamo capire la delusione di chi aveva sperato che il plasma iperimmune potesse rappresentare un valido approccio per la cura della Covid-19, ma chi lavora in ambito scientifico deve sempre mettere nel conto la possibilità che le sue idee siano smentite dagli esperimenti fatti da altri scienziati. In fondo non è altro che l'antico detto galileiano "provare e riprovare", dove riprovare significa confutare le idee sbagliate.

Chi insiste ripetendo la fake news secondo cui qualche complotto internazionale avrebbe messo a tacere chi aveva trovato la cura definitiva per la Covid-19 mente sapendo di mentire e questa - secondo me - è anche una grave mancanza di rispetto verso la memoria del dottor Giuseppe De Donno. Non sappiamo cosa lo abbia spinto al suo gesto estremo. A lui va comunque riconosciuto l'amore per la professione medica e la dedizione per la cura dei pazienti. Anche lui, in fondo, è una delle tante vittime di questa terribile pandemia.

Risalgono i contagi e le mappe ECDC tornano rosse

L'ondata pandemica legata alla diffusione della variante Delta sta interessando progressivamente diversi Paesi europei, con una maggiore prevalenza che si registra - quasi sempre - nelle località turistiche più gettonate. Questa situazione è stata puntualmente registrata da ECDC che oggi ha aggiornato la sua mappa di rischio:

Stato della pandemia nei diversi Paesi europei (elaborato da ECDC)

L'ondata è partita dalla Gran Bretagna che, dopo la Brexit, non viene più inclusa nelle statistiche ECDC. Se la Gran Bretagna fosse ancora considerata, sarebbe rosso scuro, esattamente come gran parte di Olanda e Spagna, la Corsica, Cipro ed alcune isole greche. In zona rossa troviamo Irlanda, Portogallo, il sud della Francia, Lussemburgo, Malta e gran parte della Grecia. 

Sicilia e Sardegna sono le uniche due regioni italiane classificate da ECDC come zona rossa. In zona verde rimangono solo Piemonte, Alto Adige, Friuli, Abruzzo, Molise e Puglia. Il Trentino è classificato da ECDC come zona gialla.

La parte Est dell'Europa e gran parte del Nord Europa (Danimarca esclusa) sono ancora in zona verde, ma si tratta - temo - solo di questione di tempo perchè - a cominciare dalla Germania - i segnali dell'arrivo della nuova ondata pandemica sono già evidenti.

Si nota che le località turistiche più popolari sono quasi tutte caratterizzate da una elevata circolazione virale, a cominciare dalle isole del Mediterraneo cosiddette "Covid-free" che, durante la scorsa primavera, sono state proposte ai turisti come un'oasi di tranquillità dove fare le vacanze al riparo dal rischio del contagio. Peccato che nessuno si sia preoccupato di controllare lo stato di salute dei turisti in arrivo e, assieme ai turisti, sono arrivati fatalmente anche i contagi.

mercoledì 28 luglio 2021

La Gran Bretagna sta "vedendo la luce in fondo al tunnel"?

Lo stato della pandemia in Gran Bretagna è stato oggetto di grande attenzione perché ha anticipato di quasi due mesi il picco dovuto alla diffusione della variante Delta che attualmente sta diventando dominante in tutti i Paesi europei. Gli ultimi dati segnalano, per la prima volta da 8 settimane, un calo dei contagi rispetto alla settimana precedente, mentre sono ancora in crescita significativa tutti gli altri parametri (ricoveri, terapie intensive e decessi). 

La campagna vaccinale ha ormai raggiunto una parte molto consistente della popolazione adulta, grazie  al grande numero di giovani che si sono fatti vaccinare e a causa della riduzione dei tempi che intercorrono tra la somministrazione della prima e della seconda dose.

La situazione dei vaccini, aggiornta ad oggi, è mostrata in figura:

Percentuale della popolazione britannica vaccinata aggiornata ad oggi 28 luglio

Non mancano, anche in Gran Bretagna, alcune rumorose minoranze no-vax, ma le principali forze politiche hanno affrontato il tema della vaccinazione in modo coeso, senza distinguo e senza tentare forzature politiche. Se il virus non fosse mutato diventando più contagioso, con questi numeri la Gran Bretagna avrebbe già raggiunto l'immunità di gregge. Purtroppo l'arrivo della variante Delta ha cambiato radicalmente le carte in tavola alzando di molto il livello necessario per raggiungerla, ma non c'è dubbio che i vaccini - oltre a ridurre sensibilmente i danni sanitari più gravi - abbiano contribuito anche a contenere la circolazione virale.

Il quadro generale della situazione della pandemia in Gran Bretagna è mostrato qui sotto:

Quadro generale della pandemia in Gran Bretagna con andamento dei principali indicatori nel corso dell'ultima settimana

 

Si nota che, nel corso degli ultimi 7 giorni, l'aumento più significativo è quello registrato dai decessi. Il dato fa riferimento ai decessi avvenuti entro 4 settimane dal primo tampone positivo che sono un sotto-insieme di tutti i decessi, ma la variazione percentuale dovrebbe essere più o meno la stessa anche quando sarà calcolata sul numero di tutti i decessi (che sarà reso noto con almeno 2 settimane di ritardo).

Vediamo ora il dettaglio dei singoli indicatori. I contagi, prima del calo avvenuto durante gli ultimi giorni, avevano raggiunto un picco che è stato pari a circa 20 volte il minimo registrato a inizio maggio. Sono state avanzate varie ipotesi per spiegare la riduzione dei contagi iniziata alla metà di luglio: fine degli assembramenti legati al campionato europeo di calcio, chiusura delle Scuole in Inghilterrra e cessazione dei tamponi di controllo fatti agli studenti. Più semplicemente l'ondata pandemica potrebbe aver iniziato la fase calante dopo 8 settimane di crescita ininterrotta, grazie alla forte presenza di persone immuni e anche grazie ai milioni di cittadini che sono finiti in quarantena. Non c'è stata alcuna forma di lockdown generalizzato, ma chi ha avuto contatti con contagiati è stato tracciato molto efficacemente e questo potrebbe aver contribuito ad interrompere la catena di trasmissione. 

Per un interessante approfondimento sull'andamento recente dei contagi in Gran Bretagna, vi rimando ad un intervento di Paul Hunter, professore di Medicina all'University of East Anglia, apparso su The Conversation. Vedremo cosa succederà nelle prossime settimane, ma - almeno per il momento - il quadro dei contagi sta finalmente migliorando.

Nuovi contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Elaborato su dati GOV.UK

Non sorprendentemente tutti gli altri indicatori sono ancora in peggioramento (crescita). D'altra parte sappiamo che esiste un certo ritardo temporale tra contagi, ricoveri ed eventuali decessi. Se il dato dei contagi sarà confermato in discesa, nel corso delle prossime settimane dovremmo vedere una discesa anche per tutti gli altri indicatori.



Le tre figure mostrano, rispettivamente, i nuovi ricoveri ospedalieri, normalizzati rispetto ad un campione di 100 mila abitanti, il numero di pazienti ricoverati nei reparti di terapia intensiva (collegati al respiratore) ed i decessi per ogni 100 mila abitanti. Elaborato su dati GOV.UK        

Cosa succederà nelle Scuole a settembre?

Manca circa un mese e mezzo alla riapertura delle Scuole italiane. Molti affermano con decisione che, durante il prossimo anno scolastico, si farà solo didattica in presenza, ma non è chiaro se si tratti di un mero auspicio o di una previsione basata su valutazioni oggettive. 
 
Per cercare di fare chiarezza su questo tema così importante, ho provato a riassumere alcuni dei punti che – a mio avviso – incidono maggiormente sul funzionamento della Scuola in tempi di pandemia. Vi prego di considerare queste mie valutazioni come un semplice contributo al dibattito in corso, senza alcuna pretesa di completezza. Per cercare di dare un po’ d’ordine alla discussione adotterò un formato del tipo “domanda – risposta”.

Perché quello che succede nelle Scuole è rilevante per tutti, anche per chi non frequenta la Scuola? Le Scuole possono essere considerate come un enorme serbatoio dove il virus può circolare efficacemente grazie agli stretti contatti sociali che caratterizzano la vita giovanile (a Scuola e nel suo circondario). In caso di contagio, i giovani studenti corrono rischi estremamente bassi (a meno che non siano affetti da gravi patologie pregresse), ma sono spesso inconsapevolmente i vettori attraverso cui il virus si propaga alle persone più avanti con l’età e quindi a serio rischio di complicanze. I contagi che coinvolgono gli alunni di una Scuola, oltre a causare danni diretti agli studenti costretti in quarantena, possono innescare contagi secondari nei rispettivi gruppi famigliari. In molti casi è stata vista una evidente correlazione tra la riapertura delle Scuole ed una forte crescita dei contagi o – viceversa – un calo dei contagi in occasione della chiusura delle Scuole.

Possiamo ragionevolmente pensare di risolvere il problema con la vaccinazione di massa degli studenti? In realtà sappiamo che gli attuali vaccini sono autorizzati (solo quelli ad mRNA) a partire dall’età di 12 anni. In pratica non c’è vaccino disponibile per gli alunni delle Scuole dell’infanzia e le Scuole primarie.

Per la fascia d’età compresa tra i 12 ed i 17 anni non c’è – a livello internazionale – un atteggiamento unico adottato da tutte le Autorità sanitarie. Le Agenzie del farmaco americana ed europea hanno autorizzato la somministrazione dei vaccini per i bambini con almeno 12 anni, pur segnalando – tra gli effetti avversi - alcuni rari casi di miocardite che hanno colpito principalmente giovani maschi. Alcuni Paesi (ad esempio Gran Bretagna e Germania) preferiscono somministrare il vaccino soltanto ai minori affetti da particolari patologie. Altri Paesi (ad esempio Israele, gli USA ed anche l’Italia) non pongono limiti alla vaccinazione dei ragazzi con almeno 12 anni. Fatte le opportune valutazioni, ammesso e non concesso che si decidesse di procedere alla vaccinazione estesa di tutti gli studenti con almeno 12 anni d’età, non parliamo comunque di una operazione di breve durata, sia per motivi organizzativi, sia per possibili limitazioni nelle forniture dei vaccini.

Cosa possiamo aspettarci a breve dai vaccini?
Sarebbe già un successo vaccinare al più presto tutti gli studenti maggiorenni che durante il prossimo anno scolastico dovranno affrontare l’esame di maturità (e gli studenti universitari). Per quanto riguarda i minori, credo che la questione debba essere ulteriormente approfondita, possibilmente senza dare alla discussione una colorazione politica che rischierebbe di stravolgere il dibattito.

Bisogna vaccinare gli insegnanti ed il personale scolastico? Personalmente ritengo che tutte le categorie professionali che lavorano a contatto con il pubblico dovrebbero essere vaccinate. Vale per gli insegnanti, ma vale anche per gli impiegati dell’anagrafe, gli autisti degli autobus o i commessi dei supermercati. I contagi avvengono preferenzialmente dove ci sono più contatti tra le persone. Anche se gli attuali vaccini non offrono una protezione di tipo “sterilizzante” (ovvero non escludono che una persona vaccinata possa contrarre il contagio, magari in forma asintomatica) una persona vaccinata è comunque potenzialmente molto meno contagiosa rispetto ad una non vaccinata. Dobbiamo imparare a ragionare dei nostri sistemi di protezione rispetto al virus come se avessimo degli scudi con qualche buco qua e là. Lo scudo non offre una protezione sicura al 100%, ma è decisamente meglio usare uno scudo con qualche piccolo buco piuttosto che affrontare il rischio a mani nude, senza alcuna protezione.

Bisogna vaccinare anche i genitori degli alunni? Le famiglie giustamente chiedono che la Scuola si prenda cura dei loro figli e che li educhi gestendo al meglio i rischi della pandemia. Ma poiché la connessione tra ciò che avviene in classe ed il mondo reale è spesso mediata dall’ambiente famigliare, bisogna che anche le famiglie si assumano le loro responsabilità. In particolare, i genitori degli alunni devono essere consapevoli che i loro figli possono facilmente diventare diffusori dell’infezione. Vaccinandosi, i genitori contribuiscono a creare un argine (non perfetto, ma comunque utilissimo) che può servire per ridurre la circolazione virale nel caso in cui si verifichi un contagio a livello scolastico. Sento alcuni genitori chiedere giustamente - a mio parere - che gli insegnanti siano vaccinati. Sarebbero più credibili se lo fossero anche loro.

I problemi sono ben altri…! Il cosiddetto “benaltrismo” è uno sport molto praticato nel Bel Paese e, durante la pandemia, sono state raggiunte vette sublimi di scarica barile. Secondo alcuni, i contagi non avverrebbero a Scuola (grazie ai ridicoli banchi a rotelle?), ma sugli autobus che trasportano gli alunni da casa a Scuola e viceversa. Con l’arrivo della variante Delta tutte queste discussioni perdono completamente di significato (per la verità, ne avevano poco anche prima). Essendo la variante Delta molto più contagiosa rispetto ai ceppi virali precedenti, sono venute a cadere tutte quelle prescrizioni (spesso frutto di compromessi politici piuttosto che di serie valutazioni tecniche) che avrebbero dovuto proteggerci dal contagio: “1 metro di distanza!”, “viaggio in autobus di durata inferiore ai 15 minuti”, ecc. Oggi più che mai, chi sostiene che gli eventuali contagi avvengono nei sistemi di trasporto pubblico piuttosto che nelle aule scolastiche lo fa sulla base di pregiudizi, ma senza il supporto di dati scientifici affidabili. I contagi possono avvenire sia a Scuola, sia sui mezzi di trasporto pubblico. Quale sia il posto potenzialmente più favorevole ai contagi dipende da molti fattori su cui non mi dilungo. Ciò premesso, non è comunque una buona idea premere gli alunni (e non solo loro) come sardine nei mezzi pubblici. Discutiamo di questa questione da più di un anno e l’unica novità che sento è la richiesta di aumentare il tasso di riempimento dei mezzi pubblici. Boh!!

Allora cosa si può fare? Premesso che maggiore è il tasso di persone vaccinate che utilizzano i mezzi pubblici o stanno al chiuso nelle aule, minore sarà la circolazione virale attesa, l’unica cosa che funzionava e continuerà a funzionare per limitare i contagi è la mascherina, purché sia di buona qualità e sia indossata in modo corretto. Altrettanto importante continua ad essere l’areazione dei locali chiusi (mezzi pubblici inclusi!). A questo proposito, mi risulta che non sia stato fatto quasi nulla per garantire un adeguato sistema di circolazione e di sanificazione dell’aria delle aule scolastiche. Con la brutta stagione in arrivo, siamo ancora fermi al suggerimento di tenere le finestre aperte. Si sarebbe potuto fare qualcosa di utile con costi non stratosferici, ma si è perso tempo e temo che anche il prossimo anno scolastico non vedrà sensibili miglioramenti su questo fronte.

I test molecolari servono ancora?
Finché la circolazione virale si manterrà elevata, è essenziale continuare a fare un elevato numero di test molecolari. Avendo a che fare con persone giovani che spesso contraggono il contagio in forma asintomatica, cercare i focolai nelle Scuole con i test antigenici rapidi rappresenta spesso una perdita di tempo e di denaro pubblico (ci sono troppi falsi negativi). Molto meglio usare i test molecolari, possibilmente accoppiati ai campionamenti salivari che sono molto più facili da gestire. In Trentino ci annunciano da mesi che le analisi salivari sarebbero presto disponibili. Speriamo che, con la prossima apertura della Scuole, entrino veramente nell’uso comune, a cominciare dalle Scuole dell’infanzia e primarie dove l’opzione della vaccinazione dei bambini non può neppure essere presa in considerazione.

martedì 27 luglio 2021

Vaccinarsi è “di sinistra”?

Una delle sciagure collaterali che hanno accompagnato la terribile pandemia di Covid-19 è stata la politicizzazione della Sanità pubblica che in molti Paesi – ma non in tutti – è stata trasformata in argomento di scontro tra opposte fazioni politiche. Rifiutare il vaccino è stato spesso assimilato ad un comportamento “di destra”, mentre la “sinistra” è stata talvolta accusata di voler imporre la vaccinazione a chiunque.

In realtà questa descrizione un po’ macchiettistica dell’approccio alla vaccinazione ha alcune notevoli eccezioni. Boris Johnson (soprannominato BoJo) in Gran Bretagna e Benjamin Netanyahu (soprannominato Bibi) in Israele non possono certamente essere annoverati tra i campioni della sinistra, ma hanno fatto della campagna vaccinale uno dei punti cardine della loro strategia di contrasto alla pandemia. Non a caso i due Paesi si trovano ai vertici mondiali per la somministrazione dei vaccini. Resistono, anche in questi Paesi, fasce minoritarie di persone che rifiutano il vaccino, ma – soprattutto in Israele – sono spinte da motivazioni di carattere religioso o etnico piuttosto che dal senso di appartenenza ad un certo schieramento politico.

È invece clamoroso il caso degli Stati Uniti dove, malgrado l’ampia disponibilità di vaccini, la campagna vaccinale si è bloccata di fronte al rifiuto di una parte consistente della popolazione USA di farsi vaccinare. Sul fatto che le motivazioni siano collegate all’appartenenza a diversi schieramenti politici ci sono pochi dubbi. In un recente articolo pubblicato dalla CNN viene mostrato come gli Stati con il minore tasso di vaccinazione risultano essere quasi sempre quelli dove, nelle recenti elezioni presidenziali, aveva vinto il candidato Donald Trump. Sono gli stessi Stati dove attualmente si osserva la maggiore recrudescenza dell’epidemia legata alla diffusione della variante Delta. 


In alto, la mappa dei risultati delle ultime elezioni presidenziali in USA: in rosso gli Stati dove ha vinto Donald Trump. In basso: la mappa delle vaccinazioni in USA aggiornata a metà luglio: le zone più scure sono quelle con i tassi di vaccinazione più elevati. Ambedue le mappe sono tratte dal sito della CNN
 

Ormai si osserva che il Mondo è diviso in due parti tra "chi ha il vaccino e chi non ce l'ha". Ma dovremmo aggiungere una terza categoria "chi ha il vaccino, ma non lo vuole usare".

Anche in Italia, troviamo puntualmente gli esponenti dei movimenti di estrema destra alla testa dei cortei no-vax. Gli esponenti di alcuni partiti nazionali mostrano il classico comportamento cerchiobottista: si fanno vaccinare, ma lo ammettono malvolentieri cercando di lisciare il pelo a quei milioni di no-vax e soprattutto di boh-vax che sono comunque un importante serbatoio elettorale. Si tratta del tentativo – a volte un po’ puerile – di strumentalizzare un movimento estremamente composito che, oltre ad essere una sorta di valvola di sfogo per il disagio sociale accumulato in questi lunghi mesi di pandemia, contiene al suo interno forme di ribellismo “a prescindere”, complottisti di varia estrazione e casi umani che richiederebbero una attenta analisi psicologica. Sono comunque voti e qualcuno cerca di raccattarli.

È un vero peccato che almeno i leader dei principali partiti nazionali non siano riusciti ad adottare una linea comune e priva di ambiguità nei confronti dei vaccini. 

Il tema è complesso ed in questo blog lo abbiamo discusso seguendo l’evoluzione della situazione, evidenziando gli errori fatti soprattutto a livello di comunicazione, senza reticenze e senza nascondere le questioni che hanno animato il dibattito scientifico. Dare alla vaccinazione un colore “politico” rende la situazione ancora più complicata. 

Non tutti i cittadini hanno le capacità cognitive per districarsi nel mare di informazioni talvolta contraddittorie che hanno accompagnato la campagna vaccinale e decidere sulla base dell’appartenenza politica può essere per taluni una scorciatoia tutto sommato semplice, che non richiede ragionamenti troppo complessi. Ma le scelte basate su criteri di appartenenza politica, piuttosto che su una attenta valutazione dei fatti, possono talvolta rivelarsi molto pericolose.


domenica 25 luglio 2021

Quanti pazienti ci potrebbero essere nelle terapie intensive a metà settembre?

Sui giornali stanno apparendo proiezioni più o meno attendibili sui contagi e sui ricoveri che registreremo nei prossimi due mesi. Aldilà dei titoli altisonanti, tutte queste proiezioni vanno considerate con molta cautela perché sono basate su numerose ipotesi, spesso difficili da verificare. In questo blog ho sempre sostenuto che è più facile fare previsioni sull'andamento dei mercati azionari piuttosto che sui numeri futuri della pandemia e rimango di questa idea.

Ciò premesso, vi faccio vedere come, partendo dai dati attuali della Gran Bretagna. si può tentare di stimare il numero di persone che, a metà settembre, si troveranno ricoverate nei reparti Covid di terapia intensiva degli ospedali italiani. Il metodo è molto semplice: basta spostare i dati britannici di 8 settimane, aumentandoli del 50% perché la Gran Bretagna comunica solo il numero dei pazienti collegati al respiratore artificiale che non sono tutti quelli ricoverati in terapia intensiva. 

La scelta di spostare i dati britannici esattamente di 8 settimane è ovviamente arbitaria. Sappiamo che la diffusione della variante Delta in Italia sta avvenendo con un ritardo di almeno 6 settimane rispetto alla Gran Bretagna. Tenuto conto che i ricoveri in terapia intensiva avvengono, a loro volta, con un certo ritardo rispetto alla diffusione dei contagi, ho scelto un ritardo di 8 settimane. Ricordo che quella che stiamo facendo è una valutazione che va considerata solo da un punto di vista qualitativo. I risultati cambierebbero di poco se - invece di 8 settimane - avessi scelto un ritardo di 7 o di 9 settimane.

A proposito della Gran Bretagna, nella settimana che termina oggi è stato registrato, per la prima volta da inizio maggio, un calo dei nuovi contagi rispetto alla settimana precedente (-15%). È ancora troppo presto per poter dire se sia stato effettivamente raggiunto il massimo relativo dei contagi o se si tratta solo di una fluttuazione. Nel corso dell'ultima settimana sono aumentati i decessi (+59%) ed i nuovi ricoveri in ospedale (+27%). Il numero dei pazienti che si trovano nei reparti di terapia intensiva è aumentato del 22%.

Riprendendo il nostro confronto, i dati britannici sulle persone ricoverate in terapia intensiva (spostati nel tempo e aumentati del 50%, corrispondenti alla linea rossa) e quelli italiani (linea nera) appaiono grossolanamente sovrapposti. Ipotizzando che l'andamento futuro dell'Italia sia simile a quello britannico, si può stimare che l'Italia - a metà settembre -  raggiungerà il livello attuale della Gran Bretagna. In pratica potremmo avere 1,6 ricoverati in terapia intensiva per ogni 100 mila abitanti, in valore assoluto, circa 1.000 pazienti. Ipotizzando che siano complessivamente disponibili 5.000 posti letto di terapia intensiva, saremmo ad una occupazione del 20%.

Numero di pazienti ricoverati nei reparti Covid di terapia intensiva: Italia e Gran Bretagna a confronto (vedi il testo per i dettagli)

Si tratta di un conto che definirei decisamente "spannometrico" perché Italia e Gran Bretagna sono molto diverse tra loro per livello di vaccinazioni, comportamenti sociali e limitazioni imposte dalle Autorità sanitarie. senza contare che la gran Bretagna ha chiuso le Scuole solo a metà luglio, proprio in coincidenza con il cosiddetto "freedom day". Ipotizzare che tutti questi effetti si compensino per generare un andamento dei ricoveri simile nei due Paesi (sia pure con un certo ritardo temporale) è una ipotesi molto "forte" e non adeguatamente verificata. Infatti ci sono previsioni che ipotizzano una crescita molto più rapida, ma c'è anche chi ritiene che un eventuale aumento delle vaccinazioni nel prossimo mese di agosto potrebbe limitare sensibilmente i danni.

Va infine sottolineato che questa valutazione si riferisce ai soli ricoveri in terapia intensiva verso i quali le molte persone vaccinate hanno comunque un ottimo livello di protezione, più elevato rispetto ai ricoveri nei reparti ordinari. Nei reparti di terapia intensiva troveremo in gran parte coloro che non hanno voluto (o potuto) farsi vaccinare.

Tornando al nostro ragionamento iniziale, per fare previsioni precise ci vorrebbe una sfera di cristallo (ma di quelle buone che funzionano davvero!). Possiamo tuttavia concludere che è sbagliato illudersi che, passando dalla valutazione dei contagi a quella dei ricoveri, si sia definitivamente scongiurata l'ipotesi di superare i limiti, fino ad essere costretti a richiudere molte attività, a cominciare da bar, cinema, palestre e ristoranti. 

Vaccinare il più possibile viene spesso considerato come un mero obiettivo di natura sanitaria, ma non dobbiamo dimenticare che la campagna vaccinale avrà anche un enorme impatto economico e sociale. A tutti i giovani indecisi dico: "Se non volete proteggere la salute di chi vi sta vicino, almeno pensate alla vostra vita sociale e al vostro portafoglio!".

venerdì 23 luglio 2021

Aggiornamento sulla pandemia in Italia: una rapida risalita

Nella settimana in cui l'Italia ha deciso di abbandonare il numero dei contagi per definire i livelli di rischio delle Regioni/PPAA, prosegue la rapida crescita dei contagi che, già nei prossimi giorni, sono destinati a superare - come media nazionale - il livello di 50 casi settimanali per 100 mila abitanti, vecchio limite per rimanere in zona "bianca". 

I nostri tecnici e governanti sono di questo avviso: aver spostato il peso sui parametri legati ai ricoveri ci darà un po' di tregua, probabilmente fino a Ferragosto. Poi si vedrà!

Il dato dei contagi nazionali mostra un sostanziale raddoppio rispetto alla settimana precedente:

A livello provinciale, il dato dei contagi in Trentino si è riallineato alla media nazionale, recuperando l'effimero crollo che si era verificato da metà giugno a metà luglio:

La linea blu tratteggiata mostra il limite di 50 contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti
 

Come anticipato la scorsa settimana, c'è stata anche una netta inversione nei ricoveri che sono aumentati in modo significativo:

Variazione percentuale dei ricoveri nei reparti Covid degli ospedali italiani. Per la prima volta da inizio aprile, il dato dei ricoveri mostra un aumento

Anche il dato dei nuovi ricoveri in terapia intensiva mostra una tendenza alla risalita:


Per quanto riguarda i decessi, il dato è ancora in leggero calo. Come ricordato in precedenti post questo dato viene talvolta "alterato" dalla comunicazione ritardata di decessi avvenuti nelle settimane o anche nei mesi precedenti. Poiché siamo su un livello comunque basso, piccoli "conguagli" possono provocare una modifica significativa della curva. Al momento non è ancora possibile dire se anche la curva sia già arrivata in prossimità del minimo anche se sono già passate tre settimane rispetto al punto di minimo dei contagi.

Andamento dei decessi Covid in Italia. La linea blu tratteggiata indica il livello medio dei decessi che avvengono a causa degli incidenti stradali

Cosa possiamo imparare dai dati della pandemia in Israele e Gran Bretagna?

Poche settimane fa, Israele aveva abolito tutte le restrizioni legate al controllo della pandemia, ma la recente forte crescita dei contagi (ormai sopra gli 80 casi settimanali per ogni 100 mila abitanti, il doppio del livello attuale dell'Italia e circa 1/5 di quello della Gran Bretagna) ha convinto il Governo israeliano a reintrodurre l'uso del green pass per tutti gli eventi, sia all'aperto che al chiuso, che coinvolgano più di 100 persone.

Ma il dato forse più interessante proveniente da Israele è quello relativo alle persone che sono ricoverate nei reparti ospedalieri Covid e sono classificate come "gravi". Anche questo numero è cresciuto arrivando a quota 81. Un numero limitato a fronte dei circa 10 mila cittadini israeliani che attualmente sono "virologicamente positivi", ma che è tenuto sotto stretta osservazione perché rappresenta la vera misura dell'impatto della pandemia sul sistema sanitario del Paese.

Non è facile fare confronti quantitativi tra la situazione sanitaria di Paesi diversi. Ogni sistema sanitario usa criteri diversi per classificare i pazienti ospedalizzati in condizioni "gravi". Ad esempio, la Gran Bretagna (66 milioni di abitanti) ha attualmente circa 700 pazienti in terapia intensiva, ma considera come tali solo coloro che sono intubati. In Italia, sappiamo quanti sono i ricoverati nei reparti di terapia intensiva (circa 150), ma non tutti sono intubati. Israele usa criteri ancora diversi includendo anche alcuni dei casi che, in Italia, sono classificati come pre-intensivi. 

Assumendo che ciascun Paese abbia mantenuto sempre lo stesso criterio di classificazione dei casi "gravi", possiamo cercare di capire come stanno le cose confrontando i dati attuali rispetto a quelli che c'erano, nello stesso Paese, durante il precedente picco pandemico collegato con la diffusione della variante Alpha. 

Durante lo scorso mese di gennaio i casi gravi in Israele arrivarono a quota 1.200, con circa 750 nuovi contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Oggi siamo a 1/10 dei contagi e poco meno del 7% di casi gravi rispetto al picco invernale. 

A gennaio la Gran Bretagna arrivò a circa 4.000 ricoveri in terapia intensiva con 600 contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Oggi il livello dei contagi è pari a circa l'80% di gennaio, ma i ricoveri in terapia intensiva sono solo il 17% rispetto al picco invernale. 

In Italia il picco dei ricoveri in terapia intensiva dovuto all'arrivo della variante Alpha si verificò a fine marzo, toccando quota 3.700, mentre il livello dei contagi arrivò a circa 250 casi settimanali per ogni 100 mila abitanti. Al momento il dato italiano dei ricoveri in terapia intensiva è ancora fermo al 4% circa del picco associato all'arrivo della variante Alpha, mentre i contagi hanno già superato il 15% del precedente picco.

Confronto tra la situazione attuale dei contagi e dei ricoveri "gravi" rispetto a quella riscontrata durante il massimo del picco pandemico registrato ad inizio 2021, in occasione della diffusione della variante Alpha
 

I dati attuali di Israele, Italia e Gran Bretagna - pur molto diversi tra loro - confermano una sostanziale riduzione dei casi gravi, a parità di numero di contagi, rispetto a quanto accadde pochi mesi fa in occasione della diffusione della variante Alpha.

Ai fini previsionali, può essere utile ricordare che l'ondata associata all'arrivo della variante Delta sta interessando l'Italia con circa 6 settimane di ritardo rispetto alla Gran Bretagna. Non è detto che quello che succede oggi in Gran Bretagna si debba ripetere necessariamente anche in Italia, ma i dati britannici sono comunque utili per fare ragionevoli proiezioni sul futuro andamento della pandemia. Notiamo che il livello attuale di casi gravi in Gran Bretagna è circa 1/4 rispetto a quello osservato a gennaio, a parità di numero di contagi. Se questo rapporto fosse confermato anche in Italia, la possibilità di superare almeno la soglia di ricoveri in terapia intensiva che determina il passaggio a zona gialla sarebbe abbastanza elevata.



I vaccinati possono diventare contagiosi per gli altri?

Uno degli argomenti cari ai no-vax (e a taluni politici che li blandiscono cercando di accaparrarsi i loro voti) è basato sull'assunzione che "i vaccini sarebbero inutili perché anche i vaccinati possono diventare contagiosi". Si tratta di una affermazione priva di fondamento scientifico, anche se taluni sostengano esattamente il contrario. 

Un recente articolo apparso su New England Journal of Medicine descrive il risultato di una accurata indagine epidemiologica fatta su quasi 4.000 persone impegnate in ambito sanitario e soggette a sistematiche indagini per la verifica della eventuale positività, anche dopo essere state eventualmente vaccinate. Complessivamente le indagini periodiche hanno evidenziato quasi 200 casi di contagio: 5 riguardavano persone completamente vaccinate, 11 persone parzialmente vaccinate e 156 persone non vaccinate. Altri 32 contagi si sono verificati prima che fossero passate almeno due settimane dopo la prima dose e sono stati esclusi dall'analisi per l'impossibilità di capire se il contagio fosse avvenuto prima o dopo la somministrazione del vaccino. I vaccini somministrati sono stati tutti del tipo ad mRNA. Un resoconto preliminare di questo studio era già stato anticipato come pre-print, ma ieri è uscito il lavoro definitivo, verificato ed approvato dai referee

La caratteristica fondamentale di questo studio è che - essendo specificatamente dedicato a persone professionalmente esposte ad un elevato rischio di contagio e sottoposte a regolari controlli periodici - ha evidenziato tutti i casi di contagio, anche quelli completamente asintomatici.

Il dato senz'altro rilevante è che, oltre al numero esiguo di contagi rilevati tra il personale completamente vaccinato (corrispondenti ad una efficacia vaccinale del 91% per qualsiasi forma di contagio) è stato evidenziato che anche in caso di contagio, le persone vaccinate mostrano sintomi mediamente meno rilevanti e soprattutto una carica virale decisamente più bassa rispetto alle persone non vaccinate. Questo punto è particolarmente rilevante ai fini della possibilità di contagio che, come sappiamo, dipende dalla carica virale della persona positiva. 

I risultati di questo studio confermano quanto evidenziato in studi precedenti a proposito della ridotta carica virale di coloro che vengono contagiati pur avendo ricevuto la vaccinazione completa. 

Proprio per questo motivo, in Gran Bretagna le Autorità sanitarie stanno valutando la possibilità di abbandonare l'uso dei test di positività rapidi che sono stati fin qui largamente utilizzati, ma che non sono abbastanza sensibili per individuare i casi di bassa carica virale che riguardano le persone completamente vaccinate (ormai oltre 2/3 dei cittadini britannici).

I vaccini non garantiscono una protezione assoluta, ma riducono drasticamente la possibilità che i vaccinati siano contagiati e, ancora di più, la possibilità che i pochi vaccinati contagiati possano trasferire il contagio ad altri.

Sostenere che la vaccinazione sia inutile è una forzatura assurda, fatta da chi non vuol capire oppure da qualche irresponsabile che capisce benissimo, ma è in totale malafede. 

Solo vaccinando tutti, a cominciare dal personale sanitario e da chi deve stare a contatto con persone fragili, si può gestire la pandemia limitando sia i danni sanitari che quelli di natura sociale ed economica.

giovedì 22 luglio 2021

Novità sui vaccini da Israele. Servirà una terza dose per tutti?

Nuovi dati riferiti al periodo 20 giugno - 17 luglio sono stati elaborati dal Ministero della salute israeliano per valutare il grado di protezione offerto dal vaccino Pfizer - BioNTech rispetto ai contagi indotti dalla variante Delta (ex Indiana). I risultati sono stati resi noti oggi, ma sono stati molto criticati da eminenti scienziati israeliani che hanno contestato il metodo utilizzato per l'analisi dei dati. 

Secondo quanto comunicato dal Ministero della salute israeliano il grado di protezione rispetto ai contagi gravi è dell'ordine dell'86%, non distante dalle stime fatte in altri Paesi. Il dato più preoccupante - ma contestato da molti - riguarda la protezione rispetto ai contagi sintomatici (per qualsiasi livello di gravità). A fronte di un valore medio pari al 44%, ci sarebbe stata una forte dipendenza dell'efficacia vaccinale a seconda del tempo intercorso tra il momento della vaccinazione e quello del contagio. Per coloro che erano stati vaccinati a gennaio, il livello di protezione sarebbe pari solo al 16%, mentre salirebbe al 67% e al 75% per coloro che erano stati vaccinati a marzo o ad aprile, rispettivamente.

Se questi dati fossero confermati, sarebbero la prima prova di una drastica riduzione del grado di copertura garantito dal vaccino dopo soli 6 mesi dalla data di vaccinazione. Ma si tratta, come già ricordato, di dati fortemente contestati da numerosi esperti. Ad esempio, il dr. Dvir Aran, un esperto di statistica medica del prestigioso Technion – Israel Institute of Technology, ha dichiarato di essere preoccupato per il fatto che il Ministro delle salute abbia dato credito ai risultati di ricerche "fatte male e presentate in modo scorretto". Aggiungendo "Il problema non è nel vaccino, ma nei dati trattati in modo sbagliato".

Dietro a questi dati israeliani - è inutile nasconderlo - che  c'è anche la richiesta fatta alla FDA dai produttori di vaccini ad mRNA di autorizzare la somministrazione generalizzata di una terza dose di richiamo.

La questione è aperta ...


Pubblicati i dati inglesi sull'efficacia dei vaccini rispetto alla variante Delta

La rivista New England Journal of Medicine ha pubblicato i dati sull'efficacia dei vaccini Pfizer - BioNTech ed AstraZeneca nei confronti della variante Delta (ex Indiana). I risultati preliminari di questo studio erano già stati comunicati dalle Autorità sanitarie inglesi (Public Health England, PHE), ma i dati pubblicati sono quelli che hanno superato il giudizio di referee indipendenti.

Viene confermato che una sola dose vaccinale offre un livello di protezione molto scarso (circa il 30%) rispetto ai casi di contagio sintomatico prodotti dal ceppo virale Delta. L'efficacia cresce significativamente dopo la seconda dose ed è maggiore per Pfizer - BioNTech rispetto ad AstraZeneca. Una analoga differenza si osserva anche per la variante Alpha.

Rispetto alla variante Alpha (ex Inglese) che era dominante prima dell'arrivo della variante Delta, ambedue i vaccini mostrano un certo calo di efficacia. La tabella seguente riporta i valori medi di efficacia riscontrati per i due vaccini nel periodo che inizia 14 giorni dopo la somministrazione della seconda dose. I numeri tra parentesi quadra indicano l'intervallo di confidenza al 95% per la stima dei valori medi.


Astrazeneca Pfizer – BioNTech



Alpha 74,5% [68,4 – 79,4] 93,7% [91,6 – 95,3]
Delta 67,0% [61,3 – 71,8] 88,0% [85,3 – 90,1]

Ricordo che il dato di efficacia riportato si riferisce a tutti i contagi sintomatici, anche di lieve entità. Presumibilmente il grado di copertura è più alto se si considerano solo i contagi più gravi (che comportano un serio rischio di ospedalizzazione), ma lo studio inglese non fornisce indicazioni in proposito.

mercoledì 21 luglio 2021

Può servire una seconda dose anche per il vaccino Johnson & Johnson?

Il vaccino Johnson & Johnson è l'unico, tra quelli autorizzati in Europa e negli Stati Uniti, ad essere somministrato sotto forma di dose unica. Anche se la sua efficacia contro le forme di contagio sintomatiche è inferiore rispetto a quella dei vaccini ad mRNA (Pfizer - BioNTech e Moderna), il fatto di non richiedere un richiamo ha fatto considerare Johnson & Johnson come una valida alternativa vaccinale, almeno per le persone di età superiore ai 60 anni che non sono esposte ai rischi di rare trombosi caratteristici dei vaccini a vettore virale.

Un recente lavoro (ancora sotto forma di pre-print e da sottoporre al giudizio di referee indipendenti) mette in discussione l'efficacia del vaccino Johnson & Johnson di fronte ad alcune varianti virali per le quali tutti i vaccini (inclusi quelli a vettore virale) mostrano comunque una minore efficacia. Parliamo, in particolare, delle varianti Beta, Delta, Delta plus e Lambda.

Il lavoro è basato su misure di laboratorio che hanno confrontato la capacità neutralizzante del siero di persone vaccinate con diversi tipi di vaccino (oppure semplicemente guarite dopo aver contratto la Covid-19 da una precedente variante virale). I dati sperimentali mostrano un calo contenuto della risposta neutralizzante sia per i vaccinati con prodotti ad mRNA che per i guariti. Per i vaccinati con Johnson & Johnson è stato osservato un vero e proprio crollo della capacità neutralizzante

La conclusione degli Autori è che chi ha ricevuto il vaccino monodose dovrebbe comunque fare una seconda dose vaccinale (possibilmente del tipo ad mRNA) per ottenere un livello di copertura ottimale.

La critica che si può fare a questo lavoro (e a tutti i numerosi studi analoghi che sono apparsi in letteratura) è che le analisi di laboratorio non possono misurare direttamente l'efficacia dei vaccini. La capacità neutralizzante del siero delle persone vaccinate è in qualche modo legata all'efficacia del vaccino, ma la relazione è senz'altro non lineare e, in più, riguarda solo un aspetto della complessa risposta immunitaria innescata dalla vaccinazione.

I risultati di questo nuovo lavoro sono in palese contrasto con i risultati di alcuni studi di ridotte dimensioni  pubblicizzati da Johnson & Johnson secondo i quali il vaccino monodose fornirebbe una risposta efficace e duratura nel tempo anche rispetto alle nuove varianti virali più aggressive.

Purtroppo, poiché il vaccino Johnson & Johnson è stato usato in misura decisamente minore rispetto agli altri, mancano dati accurati rispetto alla cosiddetta "efficacia nel mondo reale". Dati di questo tipo sono principalmente disponibili per il vaccino Pfizer - BioNTech e per AstraZeneca.

Possiamo concludere affermando che - almeno per il momento - la questione è argomento di dibattito e non c'è ancora un consenso sul fatto se serva o meno una seconda dose vaccinale.  A mio avviso sarebbe comunque opportuno mettere sotto osservazione i possibili casi di contagio che si verificheranno tra chi ha ricevuto il vaccino Johnson & Johnson per cercare di capire al più presto se la seconda dose serva davvero ed, eventualmente, con quali tempi dopo la prima dose.


Le nuove regole per restare in zona bianca

In queste giornate estive, caratterizzate da una rapida crescita dei contagi, Regioni/PPAA e Governo nazionale sono all'affannosa ricerca di nuove regole per cercare di mantenere il Paese in regime di zona bianca, almeno fino al prossimo Ferragosto.

La vecchia soglia di 50 contagi settimanali per ogni 100 mila abitanti sarà presto superata da molte Regioni/PPAA, anche da quelle che preferiscono continuare a fare principalmente tamponi rapidi in modo da far uscire dal conteggio un bel po' di casi asintomatici. La vecchia soglia sui contagi non ha più molto senso anche perché era stata fissata quando il livello delle vaccinazioni era molto più basso rispetto a quello attuale. Sappiamo che, per i vaccinati, la probabilità di contrarre forme gravi di Covid-19 (che comportino il ricovero in ospedale) si riduce di almeno un ordine di grandezza rispetto ai non vaccinati e questo dovrebbe ridurre fortemente l'impatto dei contagi sul sistema sanitario.

Si è allora pensato di non contare più i contagi, ma di guardare piuttosto ai ricoveri, sia nei reparti ordinari che in quelli di terapia intensiva. Parametri di questo tipo erano già stati adottati in passato (sia pure senza dare loro un rilievo adeguato). Basta ricordare il caso del Trentino che, durante lo scorso novembre, è rimasto in zona gialla grazie ad un escamotage nella identificazione dei contagi (spariti per circa 2/3 dalle statistiche ufficiali), pur avendo i reparti Covid strapieni.

Oggi si pensa di dare finalmente il giusto peso ai parametri legati alla situazione ospedaliera. L'idea mi sembra condivisibile anche se i burocrati regionali sono già all'opera per trovare il modo di aggirare i nuovi criteri. 

C'è un possibile problema legato all'innalzamento dei criteri di gravità utilizzati per ricoverare i pazienti. Molti pazienti, dopo una rapida visita al pronto soccorso, potrebbero essere rimandati a casa. La cosa potrebbe anche funzionare se questi pazienti fossero seguiti da una adeguata struttura di assistenza domiciliare, ma dubito che ciò sia possibile. Quanto ai reparti di terapia intensiva, ci sarà la corsa a classificare i pazienti come ricoverati in sub-intensiva che, ai fini del computo dei parametri, viene considerata alla stregua di un reparto ordinario.

L'altro grosso problema è che non verranno considerati i ricoveri normalizzati rispetto al numero di abitanti (indice vero della circolazione virale e del grado di vaccinazione dei cittadini in una determinata Regione/PPAA), ma si terrà conto del livello di occupazione rispetto ai cosiddetti "posti disponibili". Sappiamo che negli scorsi mesi i burocrati regionali si sono inventati posti "disponibili" secondo criteri molto fantasiosi. Purtroppo non basta acquistare un ventilatore polmonare per creare un posto di terapia intensiva. Il grosso limite è quello del personale, medico ed infermieristico, che deve avere una particolare preparazione e non può essere trovato semplicemente bloccando le altre attività sanitarie.

Su questo punto oggi l'Associazione di categoria dei medici anestesisti ha lanciato un "grido di dolore", facendo presente l'illogicità di alcune proposte relative alla soglia di ricoveri che stanno circolando durante gli ultimi giorni.

Insomma, anche se l'idea di tenere sotto controllo i ricoveri piuttosto che i contagi potrebbe avere molto senso, il vero problema - come al solito - è quello di vedere quale sarà la sua applicazione pratica. Il rischio di lasciare ancora una volta spazio ai furbetti è certamente alto.