Noi dobbiamo definire gli obiettivi,
analizzare le risorse disponibili, programmare
le azioni da fare e verificare l’attuazione del crono-programma.
Tuttavia, quando ti ritrovi con gli alligatori attaccati al c..o è
difficile ricordare che il tuo obiettivo era quello di svuotare la palude!
Il concetto di programmazione flessibile può apparire quasi un ossimoro, almeno per chi concepisce l’idea della programmazione in stile “vecchia Unione Sovietica”. E in questo momento in cui tanti si stanno ponendo il problema di come affrontare la cosiddetta “Fase 2” di programmi in stile vecchia Unione Sovietica se ne stanno vedendo già un certo numero. Ed è paradossale osservare che molti di questi programmi vecchio stile siano proposti da soggetti che si dichiarano “liberisti” e pensano (si illudono) di tornare al Mondo di prima, come se questa esperienza fosse solo un brutto sogno da dimenticare al più presto. Altri sono più fantasiosi. C’è qualcuno che già si dichiara avviato verso la “Fase 3”, ma nessuno sa cosa sia esattamente. A me sembra il riciclo della vecchia idea di “lanciare il cuore oltre l’ostacolo!”. I più flessibili di tutti se ne fregano di pianificare alcunché e vanno avanti ispirati dall’italico motto “io speriamo che me la cavo!”, pensando di cavarsela dando a qualcun altro la colpa dei disastri che saranno causati dalla loro leggerezza. Insomma una vera e propria Babele in cui è difficile capire esattamente cosa fare e quasi siano i vincoli esterni da soddisfare.
Qui di seguito ho provato a raccogliere alcune riflessioni che certamente non coprono in maniera esaustiva le molte sfaccettature dei problemi che saremo chiamati ad affrontare. Consideratele come un contributo, parziale e ancora molto grezzo, al dibattito che ci impegnerà nel corso dei prossimi mesi.
Nessuno in questo momento può dirci quale sarà l’evoluzione futura della pandemia di Covid-19. Questo è un dato di fatto e non c’è bisogno che ripeta qui le motivazioni per le quali il cosiddetto “consenso scientifico” ha bisogno di tempo per consolidarsi. Andiamo da scenari disastrosi come quelli descritti in uno studio che vi ho segnalato qualche giorno fa, alle previsioni più ottimistiche che parlano di un indebolimento della letalità di Covid-19 o della quasi certa messa a disposizione di un vaccino in tempi molto brevi. In mezzo troviamo le posizioni di chi pensa che la Pandemia potrebbe avere un comportamento di tipo “carsico”, ovvero potrebbe sparire per alcuni mesi, salvo riaffiorare con rinnovata intensità tra uno o più semestri. Per farla breve, chi deve fare programmazione non ha, al momento, uno scenario di riferimento consolidato. Il primo elemento di flessibilità che viene richiesto è dunque quello di rendere il sistema sufficientemente reattivo per adattarsi alle possibili variazioni del quadro pandemico. Sposare una delle ipotesi di evoluzione dell’epidemia e definire i nostri programmi prendendo quell’ipotesi per buona, sarebbe un grave errore. D’altra parte, di fronte al dubbio la reazione non può neppure essere quella di bloccare qualsiasi decisione sine die, in attesa che il consenso scientifico si consolidi. Oggi i danni dell’inazione sono ormai confrontabili se non superiori rispetto ai danni dell’epidemia. Bisogna quindi fare delle scelte sulla base delle informazioni disponibili oggi, sapendo che dovremo rivederle in futuro sulla base dell’evoluzione dell’epidemia.
Per essere flessibili e reattivi bisogna sapere esattamente cosa sta succedendo. Se le informazioni di cui disponiamo sono incomplete, confuse e arrivano in ritardo la probabilità di adottare con successo un sistema di programmazione flessibile si riducono al lumicino. Anzi potremmo fare danni ancora maggiori specialmente se le risposte arriveranno con troppo ritardo. Potrebbe succedere, su una scala molto più ampia e complessa, quello che succede in taluni circuiti elettronici quando si sbaglia il cosiddetto “feed-back”. Il circuito elettronico “impazzisce” e satura, oppure oscilla tra un estremo all’altro. Qualche volta si vede un filo di fumo ed il problema finisce lì. Ma quando abbiamo a che fare con gli esseri umani, l’approccio non può essere quello di un tavolo da laboratorio di elettronica.
Bisogna mantenere e valorizzare le esperienze di flessibilità che l’emergenza ci ha fatto conoscere. In un post di qualche giorno fa ho brevemente discusso del ruolo che la didattica a distanza potrebbe assumere anche dopo il ritorno alla “normalità”. Lo stesso si potrebbe dire per le esperienze di lavoro a distanza che hanno coinvolto milioni di persone in tutta Italia. In un mese siamo stati costretti a fare un salto che, in condizioni pre-Covid, avrebbe richiesto molti anni. Non tutte le esperienze sono state positive. Ci siamo resi conto che disporre di una vera “banda larga” non è un lusso, ma è ormai una necessità primaria. Abbiamo verificato i limiti delle tecnologie attuali che ci rendono dipendenti da multinazionali americane o cinesi, a cui regaliamo quotidianamente i nostri dati e le nostre informazioni riservate (incluse le nostre conversazioni), salvo poi preoccuparci per la privacy quando ci chiedono di installare una app per il tracciamento dei nuovi focolai di infezione. Insomma problemi ce ne sono tanti e lungi da me sostenere che le attività a distanza sostituiranno quelle frontali. Tuttavia, se opportunamente valorizzate, potrebbero utilmente integrarsi con le attività frontali, riducendo la mobilità delle persone con conseguenti miglioramenti in termini di maggiore tempo libero e riduzione dell’inquinamento atmosferico. Quindi qualcosa di utile da sviluppare e valorizzare, purché qualche irriducibile maschilista non pensi di utilizzare queste tecnologie per “rimandare le donne a casa, sia pure collegate a distanza per fare il loro consueto doppio lavoro”.
Ci deve essere anche flessibilità di scala. Devo questa osservazione ad un mio ex studente, il Dr. Fabrizio Merz che ringrazio. Fabrizio vive da 15 anni a Shanghai dove dirige una azienda collegata ad una Società italiana che ha sede a Brescia. Quindi un'esperienza irripetibile dell’impatto di Covid-19 sulle realtà industriali cinese ed italiana. Se qualcuno in Provincia provasse a chiamarlo per sentire il suo pensiero sull’argomento, non sarebbe tempo buttato. Come mi spiega il Dr. Merz uno degli strumenti fondamentali per gestire la ripresa è basato sull'utilizzo di metodi di lockdown anche su scala molto ridotta (un quartiere cittadino o addirittura un blocco di abitazioni). Pensare a lockdown su scala regionale o nazionale ha senso solo quando l’epidemia sfugge di mano. Per evitare che questo accada bisogna, come già detto prima, disporre di dati accurati riguardo all’insorgenza di nuovi possibili focolai, monitorare gli spostamenti delle persone per avvisare subito i possibili contagiati, e applicare immediatamente misure di lockdown localizzate alle micro-zone dove l’epidemia ha incominciato a diffondersi. Poi in Cina, se pensate di fare i furbi e di non rispettare le regole vi sbattono in galera, ma questo è un altro discorso.
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