lunedì 8 novembre 2021

Il punto sui trattamenti antivirali per la Covid-19

Recentemente, Merck e Pfizer hanno annunciato il successo della sperimentazione di fase 3 per i loro antivirali (Molnupiravir di Merck e Paxlovid di Pfizer) specificamente sviluppati per prevenire la comparsa di gravi complicanze in coloro che hanno contratto la Covid-19. Sembra che buoni risultati siano stati ottenuti anche utilizzando la Fluvoxamina, un farmaco già approvato come antidepressivo.
 
Questi annunci potrebbe aprire un nuovo capitolo nella lotta contro la pandemia. La caratteristica dei farmaci sviluppati da Merck e Pfizer è quella di combattere la replicazione del virus all’interno delle cellule infettate. Sappiamo poco sul possibile meccanismo di funzionamento della Fluvoxamina per la quale esistono solo prove empiriche di efficacia anche come antivirale. 
 
Tutti i 3 farmaci sono somministrati per via orale, sotto forma di semplici pillole. La tempistica della somministrazione è fondamentale per garantire ragionevoli probabilità di successo (analogamente a quanto succede per altri tipi di farmaci come gli anticorpi monoclonali): il trattamento deve essere fatto immediatamente dopo la comparsa dei primi sintomi, senza aspettare che compaiano eventuali complicanze. Se viene fatto troppo tardi diventa assolutamente inutile. Capiamo quindi che la possibilità di somministrare i nuovi antivirali per via orale può fare la differenza, allargando la platea delle persone che possono essere trattate. 
 
Ricordo che, in ogni caso, l’utilizzo di questi farmaci non è pensato per l’automedicazione di qualsiasi persona positiva al tampone, ma è strettamente riservato a pazienti che, per età o per condizioni generali di salute, presentano - a giudizio del medico curante - un rischio significativo di esprimere una forma grave della Covid-19. 
 
Al momento il prodotto Pfizer è stato solo annunciato, ma non risulta che l’FDA o qualche altra Autorità per il controllo dei farmaci abbia ancora ricevuto una specifica richiesta di autorizzazione per il suo utilizzo. Il prodotto Merck ha già ottenuto l’autorizzazione provvisoria da parte delle Autorità britanniche, mentre FDA ed EMA stanno lavorando sul relativo dossier e si prevede che dovrebbero arrivare rapidamente alla fase autorizzativa. 
 
Un discorso interessante riguarda l’efficacia di questi farmaci. Per il prodotto Merck si parla di una riduzione del rischio pari al 50%, valore che crescerebbe al 90% per il prodotto Pfizer. Il condizionale è d’obbligo perché le due aziende hanno utilizzato protocolli diversi e non è detto che i due numeri siano direttamente confrontabili. Nessuno dei due studi è stato ancora rendicontato nell’ambito di un articolo pubblicato su una rivista scientifica e – sulla base delle scarne informazioni fin qui disponibili – non possiamo che sospendere il giudizio. 
 
L’unica cosa certa è che entrambe le sperimentazioni di fase 3 sono state concluse anzitempo, su indicazione dei Comitati etici indipendenti che le sorvegliavano. Questa procedura si attua quando c’è una chiara evidenza che il farmaco in prova produca un beneficio rispetto al placebo. In tal caso, diventa eticamente impossibile continuare la sperimentazione somministrando ad una parte dei volontari il placebo perché verrebbero coscientemente esposti ad un rischio di gravi complicanze che si potrebbe evitare. 
 
L’unico studio che è stato descritto in letteratura è quello relativo alla Fluvoxamina, pubblicato a ottobre da un gruppo di ricercatori brasiliani sulla rivista Lancet Global Health. Lo studio ha mostrato una riduzione sia dei ricoveri che dei decessi nei pazienti trattati preventivamente con Fluvoxamina, ma è stato criticato da alcuni commentatori. In particolare, gli Autori non si sono limitati a valutare l’incidenza dei ricoveri, ma hanno tenuto conto anche della permanenza prolungata nei reparti di pronto soccorso, non seguita da un successivo ricovero. Su un campione di circa 750 volontari che hanno ricevuto il farmaco, il 10% è stato ricoverato in ospedale per Covid. La percentuale sale al 13% per l’analogo gruppo di volontari che avevano ricevuto il placebo  (per confronto, nella sperimentazione del farmaco Pfizer, la percentuale di volontari ospedalizzati è stata dello 0,8% per chi aveva ricevuto il farmaco, contro l'8% di chi aveva ricevuto il placebo).
 
Se andiamo a vedere coloro che sono stati trattenuti per almeno 6 ore al pronto soccorso senza dover subire un successivo ricovero, la percentuale è pari all’1% per chi aveva ricevuto il farmaco, mentre sale al 5% nel gruppo del placebo. Mettendo assieme i dati dei ricoveri assieme a quelli delle lunghe permanenze al pronto soccorso, il vantaggio legato alla somministrazione del farmaco risulta molto più evidente, ma questo modo di analizzare i dati è un po’ “border-line” e complica notevolmente l’interpretazione dei risultati. Per il momento, l’americano NIH tiene ancora un atteggiamento molto prudente e non consiglia l’uso della Fluvoxamina per il trattamento della Covid-19. 
 
Parliamo adesso dei costi. Recentemente gli Stati Uniti hanno opzionato 1,7 milioni di trattamenti basati sul Molnupiravir, investendo 1,2 miliardi di dollari. Il costo di un singolo trattamento è quindi pari a circa 700 US$. Molto meno dei costi di un ricovero prolungato in ospedale, ma certamente un costo non trascurabile, non alla portata di molti abitanti dei Paesi più poveri. 
 
Per quanto riguarda il nuovo farmaco Pfizer, non conosciamo ancora i costi anche se la Ditta produttrice ha affermato che avrà un prezzo “conveniente” e che una parte della sua produzione sarà distribuita nei Paesi poveri a prezzo ridotto. 
 
Il prezzo della Fluvoxamina è molto contenuto (meno di 20US$ per un trattamento completo), ma rimangono – come ricordato sopra – alcuni dubbi sulla sua efficacia. 
 
In conclusione, siamo nella classica situazione del “bicchiere mezzo pieno oppure mezzo vuoto”. Finalmente vediamo apparire dei farmaci antivirali che riducono sensibilmente l’insorgenza delle complicazioni più gravi della Covid-19 e possono essere assunti anche al di fuori dell’ambito ospedaliero. Questi farmaci sono stati provati quando la variante Delta era già in circolazione e la loro efficacia non dovrebbe dipendere molto dal possibile ceppo virale che si va a trattare. 
 
Dall'altra parte, ci sono ancora dubbi sulla reale efficacia dei diversi farmaci proposti e probabilmente questi dubbi non potranno essere dissipati fino a che non si farà una sperimentazione su scala più ampia rispetto agli studi fin qui condotti. 
 
Il vaccino rimane l’approccio fondamentale per contenere la circolazione virale e l’insorgenza dei casi gravi, ma se almeno uno dei farmaci che sono stati proposti si rivelasse veramente efficace si potrebbe pensare ad un approccio integrato dove il vaccino svolge il suo ruolo di limitatore dei contagi, mentre il trattamento antivirale verrebbe utilizzato per mettere in sicurezza i pazienti a rischio che, nonostante la vaccinazione, dovessero aver contratto il contagio. 
 
In questo modo sarebbe davvero possibile ridurre al minimo il carico sui sistemi ospedalieri e gestire la Covid-19 come “una normale influenza”.

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