sabato 14 marzo 2020

Modello Lodi: ma de che stamo a parlà?

Scusate il romanesco, ma questa è la risposta che mi viene spontanea quando assisto alla stucchevole querelle sulla possibile estensione del cosiddetto Modello Lodi a tutto il Paese.

Il temine “Modello Lodi” ha in sé un significato intrinsecamente positivo. Un modello rappresenta una eccellenza, qualcosa che tutti dovremmo imitare. Tuttavia, prima di parlare di modello dovremmo analizzare due cose: a) i risultati ottenuti e b) la cosiddetta “scalabilità” del modello. Con il termine scalabilità intendiamo la possibilità di applicare una certa metodologia quando cambia in modo sostanziale la platea delle persone coinvolte.

Siamo tutti d'accordo sul fatto che il blocco delle attività nel focolaio lodigiano abbia prodotto - a livello locale - un rallentamento significativo dell'epidemia. Chi ha rispettato scrupolosamente le norme ha fatto enormi sacrifici, ma dopo tre settimane si vedono i risultati positivi. Il numero dei nuovi contagi diminuisce significativamente, in controtendenza rispetto a quanto avviene a livello nazionale. Non dobbiamo però dimenticare che il blocco del focolaio lodigiano ha palesemente fallito rispetto ad un altro obiettivo non meno importante ovvero il blocco della diffusione del virus verso le località limitrofe. Ad esempio, sappiamo che molti cittadini lombardi hanno approfittato della chiusura forzata delle scuole e delle attività lavorative per concedersi un periodo di vacanza sulla neve. Trascorse le fatidiche due settimane, si vedono chiaramente le ricadute sul Trentino. Sia chiaro, l’epidemia sarebbe arrivata in Trentino comunque, ma non con la velocità di diffusione a cui stiamo assistendo.

Giustamente è stato stigmatizzato il comportamento dei milanesi di origine meridionale che domenica scorsa sono fuggiti in massa da Milano. Il comportamento dei turisti lombardi che due settimane prima hanno lasciato, più a meno alla chetichella, le zone dell’epidemia per andare a sciare non è molto diverso, anche se ha dato meno nell’occhio. 

Direte voi: ”noi italiani siamo allergici alle regole e non si può fare come in Cina dove sono state usate maniere forti incompatibili con la democrazia”. Vero, ma se ci fosse stato più rigore nella delimitazione iniziale delle zone rosse ed una maggiore attenzione all’effettivo confinamento dei loro abitanti forse le cose sarebbe andate un po’ meglio. Sappiamo che non è facile prendere decisioni di fronte ad una emergenza. In quei giorni i decisori politici non avevano ancora chiari i rischi dell'epidemia e sembravano essere prioritariamente preoccupati delle conseguenze economiche dei loro provvedimenti. Criticare chi è più esposto sul fronte dell’epidemia può essere ingeneroso, ma spacciare anche i risultati negativi come un modello da imitare non serve a nessuno.

Come già detto, almeno a livello locale, il blocco totale delle attività imposto nel lodigiano ha consentito di contenere efficacemente lo sviluppo dell’epidemia. Perché non farlo in tutta Italia? La risposta è molto semplice: non è tecnicamente possibile! Infatti, mentre a Lodi si chiudeva tutto, il resto del Paese ha continuato a funzionare a ritmo pressoché costante assicurando alle persone rinchiuse nella zona rossa la necessaria fornitura di medicinali, cibo, energia ed altri generi di prima necessità. Anche in Cina, è stato imposto un blocco pressoché totale alla regione intorno a Wuhan che conta 60 milioni di abitanti, più o meno quanto l’Italia. Ma non dobbiamo dimenticare che intorno alla regione di Wuhan c’era un altro miliardo di cinesi che, pur adottando severe precauzioni, hanno continuato a produrre garantendo – pur tra le comprensibili limitazioni – quanto serviva a Wuhan. Senza contare l’afflusso in massa di personale medico e infermieristico che da tutta la Cina è stato mandato a Wuhan per assistere i malati. Se chiudessimo tutta l’Italia in stile Lodi o – se preferite – Wuhan su chi potremmo contare per essere assistiti e riforniti dei beni essenziali? Pensate che Francia, Germania ed Austria siano pronte a fare per l’Italia quello che il resto della Cina ha fatto per Wuhan? Lascio al lettore la risposta.

In conclusione, è facile fare proclami e chiedere un blocco totale, ma – realisticamente – se vogliamo che il blocco non porti più danni che benefici sarebbe più opportuno adottare la politica del “blocco più ampio possibile”, ovvero il blocco di tutte le attività che non siano strettamente indispensabili. Difficile definire queste attività per decreto. Chi ha provato a farlo ha steso elenchi più o meno dettagliati, tutti criticabili. Faccio un esempio per farmi capire. Secondo voi durante il blocco dovremmo continuare a produrre cartone? A prima vista del cartone potremmo farne a meno, ma provate a pensare cosa succederebbe nella catena di distribuzione del cibo e dei medicinali se mancassero gli imballaggi. Più che un decreto, servirebbe una assunzione di responsabilità da parte di tutte le categorie a partire da imprenditori e sindacati. In particolare, andrebbe fatta una analisi dettagliata di tutte le filiere produttive essenziali adattando il sistema produttivo alle effettive necessità, anche mettendo in conto la flessibilità necessaria per rispondere alle esigenze che potrebbero palesarsi nel prossimo futuro. Ed è parimenti essenziale che chi lavora nelle attività produttive e nei servizi essenziali sia dotato delle protezioni adeguate. Non è solo una questione etica, ma è un interesse di tutti. Quando le filiere produttive marciano al minimo, se si ammalano i lavoratori si blocca tutto.

E tutti gli altri cosa dovrebbero fare? Stare a casa, evitando di fare i propagatori inconsapevoli del virus. Grati a coloro che negli ospedali, nella fabbriche e nei servizi combattono l’epidemia ogni giorno.

Nessun commento:

Posta un commento