domenica 22 marzo 2020

Se cinque giorni vi sembran pochi

Affidare il potere agli incompetenti e ai pavidi è un lusso
che possiamo permetterci solo in tempi normali



In questo momento di grave crisi, in tutti noi la speranza si alterna allo scoramento. Ancora non si vedono gli effetti del blocco alla mobilità delle persone introdotti una decina di giorni fa e si infiamma il dibattito su cosa dovremmo fare per avere finalmente successo nel confinamento dell’epidemia. Ricordo che il problema non è solo quello di arrivare al tanto atteso picco dei nuovi contagi giornalieri, ma il vero obiettivo è quello di far scendere il numero dei contagi giornalieri il più rapidamente possibile. Infatti per raggiungere il picco basta che ciascun nuovo contagiato contagi, a sua volta, meno di un'altra persona (in media). Ma c'è una enorme differenza, in termini di durata dell'epidemia e del numero totale di decessi, se il numero medio di contagi dovesse scendere a 0,9 piuttosto che 0,1.

Nessuno in questo momento può fare una previsione accurata su quali saranno i danni complessivi prodotti da questa epidemia. I conti veri li potremo fare alla fine e solo allora sarà il caso di chiamare a rispondere dei loro errori coloro che – sia a livello nazionale che locale – hanno preso decisione tardive o sbagliate. Per il momento, possiamo solo cercare di capire meglio cosa stia effettivamente succedendo e quale possa essere l’impatto della nostra incapacità decisionale sullo sviluppo dell'epidemia..

Un prima considerazione riguarda il ritardo che necessariamente separa qualsiasi tipo di intervento rispetto agli effetti attesi. Si tratta di un argomento già discusso in vari post precedenti. Molto sommariamente, cinque giorni ci vogliono affinché almeno la metà dei nuovi contagiati inizi a manifestare i sintomi. Ulteriori cinque giorni sono il tempo medio affinché dai primi sintomi iniziali si passi ad un aggravamento della situazione tale da sottoporre il paziente al test, con conseguente ricovero ospedaliero o confinamento domiciliare. Insomma per circa 10 giorni il neo-contagiato può continuare a contagiare altre persone e, se asintomatico, tale periodo può diventare ancora più lungo. Illudersi che continuando con questo andazzo si arrivi alla condizione necessaria per l’estinzione dell’epidemia è pura follia. Ho già discusso in precedenti post quanto sia stata sbagliata la decisione di sottoporre a test solo i pazienti gravemente sintomatici. Su questo punto, a parte la lungimirante posizione del Veneto, c’è stata sia a livello locale che nazionale un atteggiamento di chiusura che ha prodotto danni ingenti. Siamo, ahimé, il Paese dove si fanno i test ai calciatori, ma non a medici e infermieri. Speriamo che il cambiamento di atteggiamento che, almeno a parole, abbiamo verificato negli ultimi giorni si traduca presto in azioni concrete. Identificare subito i contagiati, anche asintomatici, specialmente tra il personale sanitario e tra le persone che sono impegnate nei servizi e nelle attività produttive essenziali è di fondamentale importanza. 

L’altra questione riguarda il tema del blocco delle attività produttive non essenziali. Molti giorni fa in questo blog avevo messo in evidenza l’illogicità di chi proponeva di chiudere “tutto”, perché l’unico modo veramente efficace per vincere l’epidemia in tempi rapidissimi sarebbe stato quello di chiudere tutto, ma proprio tutto ospedali compresi. Bisogna chiudere il più possibile, bilanciando con cautela danni certi e benefici attesi. In questi giorni, dopo la solita sceneggiata a cui hanno attivamente partecipato politici locali e nazionali, è stato finalmente deciso di chiudere tutte le attività industriali e professionali non strettamente indispensabili. Non sarà facile perché l’articolazione delle filiere produttive è cosa complessa e questo tipo di azioni richiedono coordinamento, flessibilità e prontezza di intervento. Mi tremano i polsi a pensare che questa incombenza finirà per essere affidata alla scalcagnata burocrazia italiana. Cosa volete che vi dica? Speriamo bene!

Prima di concludere vorrei affrontare un tema che, ad oggi, non sembra appassionare ancora l'opinione pubblica, ma che - secondo il mio parere - è di fondamentale importanza. Mi riferisco, in particolare, alla questione delle attrezzature medicali che sono necessarie per curare i malati e per proteggere le persone sane. Non si tratta solo delle famose e introvabili mascherine, ma di tutta una gamma di dispositivi che in passato si producevamo anche in Italia, ma la cui produzione è stata ormai quasi totalmente delocalizzata in ossequio alle leggi del mercato globale. Con lo scoppio della pandemia, quasi tutti i Paesi  - non solo l'Italia - si sono fatti cogliere alla sprovvista e hanno scoperto di non avere le scorte necessarie per affontare la lunga e dolorosa battaglia che ci attende. In questi giorni leggiamo di atteggiamenti banditeschi da parte di governi stranieri che hanno rubato materiale sanitario destinato all'Italia mentre era in transito attraverso il loro terrirorio. Comportamenti riprovevoli che prima o poi dovranno scontare. Ma il problema oggi è riuscire ad avere il materiale sanitario indispensabile. La domanda che molti si pongono è: "Possibile che un Paese come il nostro che ha, per dimensioni, la seconda industria manifatturiera d'Europa, non sia ancora stato in grado di riconvertire velocemente alcune sue fabbriche per attivare un adeguato livello di produzione?". Per fare le mascherine dobbiammo fare riferimento alle sarte di buona volontà (va benissimo per carità ed è un magnifico esempio di impegno civico) e riusciremo piuttosto a riattivare una solida produzione di tipo industriale?  Dopo un mese dall'inizio dell'epidemia siamo ancora a lamentarci delle carenze, con lo Stato (responsabile della gestione delle emergenze)  e le Regioni (responsabili della sanità) che si rinfacciano la reciproca carenza di capacità programmatoria. Vogliamo fare qualcosa o pensiamo di chiedere la carità a cinesi e russi? Non ci voleva un genio per capire che le misere scorte di materiale sanitario si sarebbero presto esaurite. Se avessimo avviato un serio programma di riconversione industriale a inizio marzo ormai ne vedremmo i risultati. Come al solito ciascuno procede in ordine sparso e, almeno per il momento, ci tocca vedere un ventaglio di soluzioni fantasiose che vanno dagli scaldacollo alle mascherine di "carta igienica".

Aggiungo un commento che non appariva nel post originale. Finalmente ieri sera (22 marzo) anche a livello nazionale ci si è resi conto dell'importanza di tracciare i contatti dei nuovi contagiati per limitare l'alteriore diffusione del virus. Le tecnologie possono aiutare e l'esperienza coreana insegna. In Italia abbiamo perso un bel po' di giorni per disquisire sulle (pur importanti) questioni del rispetto della privacy e non è stato fatto nulla dal punto di vista tecnico. Chiaramente tutte le azioni attivate per bloccare l'epidemia comportano una seria restrizione delle libertà personali. Tuttavia, come ha fatto notare un giurista tanto esperto quanto saggio "Il problema c'è, ma ne discuteremo a tempo debito". Tornando al nostro discorso, non è difficile fare un elenco di 5 esperti di informatica e telecomunicazioni italiani in grado di affrontare la questione e di stabilire un piano di intervento. In un mondo ideale li avrebbero convocati già da molti giorni e li avrebbero messi all'opera. In Italia, abbiamo deciso di fare un bando pubblico con una commissione giudicatrice che valuterà le proposte al più presto possibile! Tutto questo per garantire la "trasparenza". Vi sembra che la trasparenza valga più di molte vite umane?

In conclusione: "Quanti contagi e quanti morti in più avremo in Italia a causa degli errori di programmazione, della incapacità organizzativa e dei tentennamenti decisionali?". Non ho un numero preciso, ma basta osservare l’andamento attuale dei contagi rilevati ufficialmente per capire che ogni cinque giorni i casi raddoppiano. Cinque giorni di ritardo nel prendere le decisioni necessarie significano raddoppiare i danni dell’epidemia. Valutate voi se vi sembran pochi.

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