L'episodio di contagio diffuso che ha colpito la squadra di calcio del Genoa ha gettato nello sconforto i tifosi che già assaporavano la possibilità di tornare, sia pure con qualche limitazione, negli stadi ed ora vedono il rischio di un arresto del campionato. Analoghi episodi hanno riguardato recentemente le squadre di altri sport agonistici. ma il caso del Genoa è certamente quello che ha attirato la maggiore attenzione mediatica. Un noto infettivilogo genovese ha definito l'episodio come "la Waterloo dei tamponi", ma il suo è un giudizio di parte perché notoriamente il famoso clinico è incline a dare maggiore rilevanza ai sintomi manifestati dai pazienti, piuttosto che alle analisi di laboratorio.
Senza entrare nella vexata quaestio che vede contrapposti virologi e infettivologi, io vorrei sottolineare un aspetto di carattere generale che va ben oltre il caso specifico. Vorrei partire ricordando che, fin dall'inizio della pandemia, i giocatori della Seria A non hanno mai avuto problemi ad accedere ai tamponi (anche a fine inverno quando fare un tampone era difficile perfino per chi mostrava sintomi gravi). Non è assolutamente mia intenzione fare un discorso di stampo moralistico. Dietro al calcio professionistico c'è un pezzo di economia rilevante ed è naturale che i giocatori siano trattati come un "bene prezioso". Del resto i tamponi fatti ai giocatori di calcio non sono mai stati sottratti agli altri malati. L'analisi dei tamponi è stata affidata a strutture private, senza oneri per la Sanità pubblica. Il punto che mi interessa sottolineare è che - neppure somministrando tamponi a distanza ravvicinata - è possibile evitare al 100% che il virus si infiltri all'interno di una comunità ristretta. Ovviamente se si applicano molti tamponi la probabilità di bloccare l'ingresso del virus sale considerevolmente, ma la certezza assoluta di bloccare la propagazione del contagio non può mai essere raggiunta. Fermo restando che i numeri precisi relativi a questo episodio saranno disponibili dopo che arriveranno i risultati dei test di conferma, più che di una "Waterloo dei tamponi" parlerei più propriamente di limiti dei tamponi.
Limiti che sono ben noti da sempre e che non dobbiamo mai dimenticare. La Covid-19 ha i suoi tempi. Ci vogliono fino a 14 giorni (con una mediana di circa 5 giorni) tra il momento del contagio e quello in cui il paziente incomincia a mostrare gli (eventuali) sintomi. Anche a livello di contagiosità le cose non sono immediate e sappiamo che possono passare fino a 4-5 giorni dal contagio prima che il tampone diventi positivo. Questo è il motivo per il quale le persone vengono convocate per fare il tampone con alcuni giorni di ritardo rispetto alla segnalazione di una possibile esposizione al contagio. Ritardo che talvolta viene interpretato come una carenza dei sistemi di somministrazione dei tamponi, ma non è sempre così. Se fatto troppo presto, un tampone oggi negativo non esclude che la stessa persona possa risultare positiva il giorno seguente o pochi giorni dopo.
Questa considerazione è talvolta utilizzata per motivare la decisione di non fare mai tamponi a scopo preventivo. Tuttavia, tra fare un tampone a tutti, tutti i giorni e non farlo mai a nessuno, si può trovare una via di mezzo che, pur non escludendo la possibilità che si verifichino episodi come quello che ha riguardato la squadra di calcio del Genoa, riduca comunque la possibilità che il contagio si diffonda incontrollato. Non ci sono formule semplici per decidere quale sia la frequenza ottimale dei cosiddetti "tamponi preventivi", ma ciò non toglie che i tamponi preventivi, se ben mirati, possano essere molto utili. Non solo quando dobbiamo proteggere i nostri preziosi calciatori di Serie A, ma soprattutto, quando abbiamo a che fare con le persone più anziane e fragili.
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