lunedì 28 settembre 2020

L'affascinante (e non provata) teoria della mascherina come agente per la "vaiolizzazione" da SARS-CoV-2

In un contributo apparso sul New England Journal of Medicine, Monica Gandhi e George W. Rutherford dell'Università di California, San Francisco avanzano l'ipotesi che l'uso sistematico delle mascherine oltre a proteggere da forme di contagio intenso possa produrre nel tempo un certo tipo di risposta immunitaria al virus SARS-CoV-2. L'argomento è stato prontamente ripreso da numerosi quotidiani italiani e internazionali

In pratica poichè nessuna mascherina garantisce un filtaggio del virus in entrata pari al 100% (si va da circa il 70% fino al 99% a seconda del modello) durante un eventuale contatto con un soggetto infetto chi indossa la mascherina inalerebbe comunque una ridotta carica virale. Tale carica sarebbe spesso sotto la soglia necessara per trasferire il contagio (soglia che per la verità nessuno conosce esattamente) perché il sistema immunitario, anche in assenza di difese specifiche, non avrebbe difficoltà ad eliminare il virus grazie alla sua concentrazione estremamente bassa. Uno o più episodi di questo tipo addestrerebbero il sistema immunitario a riconoscere il SARS-CoV-2 aumentando l'efficacia della risposta immunitaria nelle eventuali successive esposizioni. Questo potrebbe produrre in una crescente frazione della popolazione una sorta di immunità che contribuirebbe a ridurre la probabilità di essere contagiati e che, in caso di contagio, porterebbe a forme più lievi della malattia.

Si tratterebbe quindi di una immunità acquisita assumendo piccole dosi di virus in tempi successivi, un po' come il re Mitridate faceva con i veleni. Nel caso specifico il termine corretto da utilizzare sarebbe quello di vaiolizzazione (detta anche variolizzazione dal latino Variolis), una pratica (abbandonata dopo l'introduzione del vaccino), che produceva (non senza seri rischi)  una immunizzazione al vaiolo di soggetti sani a cui veniva inoculata una piccola quantità di materiale virale prelevato dalle lesioni di malati non gravi. 

La teoria è suggestiva, ma come riconoscono gli stessi proponenti, servirebbero studi approfonditi prima di poter affermare che abbia una solida evidenza scientifica. In particolare, è difficile separare l'effetto meccanico certo della mascherina (riduzione della carica virale ricevuta in caso di contatto con una persona virologicamente positiva) dall'effetto incerto (potenziamento del sistema immunitario dovuto a piccole quantità di virus inalate in precedenza che potrebbe ridurre la probabilità di contagio o la severità della malattia). Sarebbe disastroso - aggiungo io - se qualcuno dopo aver indossato la mascherina per mesi, decidesse di non metterla più illudendosi di essere ormai diventato immune. 

Tutte le argomentazioni presentate in questo lavoro potrebbero essere solo un incentivo per favorire un uso più estensivo delle mascherine che comunque rimangono uno strumento essenziale per limitare la circolazione del virus. Personalmente, non ho le competenze necessarie per esprimere un parere di merito sulla teoria proposta dai due ricercatori californiani. I commenti degli esperti non sono univoci, come è normale di fronte ad un argomento non verificato sperimentalmente. Rimane - a mio avviso - lo stimolo a considerare il problema dello sviluppo della pandemia nella sua complessità. Vedo troppo spesso girare modelli elementari e scarsamente affidabili. La pandemia procede con la sua scia di lutti e danni sanitari ed economici, ma i meccanismi che la governano sono estremamente complicati. Ci sono, in particolare, una serie di effetti secondari che non si possono individuare e dimostrare con facilità, esattamente come quello proposto nell'articolo citato in questo post.

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