In queste ore si è sviluppato un acceso dibattito sull’opportunità di sostituire i 21 indicatori ISS con un insieme ridotto di dati da utilizzare per valutare il livello di criticità da assegnare alle singole Regioni/PPAA. I limiti e l'opacità del sistema attuale li abbiamo discussi tante volte in questo blog. Ho sentito numerose proposte di riduzione/modifica del set di indicatori. Molte di queste proposte mi sembrano ispirate dal tentativo di ridurre la complessità burocratica della procedura. La motivazione è accettabile, ma non dovremmo mai dimenticare che qualsiasi sistema basato su indicatori, oltre ad essere il più semplice possibile, dovrebbe soddisfare tre condizioni fondamentali:
- descrivere in modo completo la situazione presente,
- essere efficace a livello predittivo nel breve e (possibilmente) nel medio periodo
- consentire una adeguata verifica della consistenza dei dati che sono alla base dei calcolo degli indicatori
Questi tre obiettivi non si raggiungono mescolando un numero elevato di indicatori (se si mescolano troppi colori si ottiene fatalmente il colore marrone), ma scegliendo gli indicatori ottimali. Per dire se un indicatore sia ottimizzato o meno dobbiamo ovviamente definire gli obiettivi che il nostro "sistema di misura" ci dovrà permettere di raggiungere. Ne cito alcuni, ricordando che i diversi obiettivi possono essere correlati tra loro (ovvero uno può andare a discapito dell'altro, oppure non è possibile raggiungere un certo obiettivo, se non se ne raggiunge anche un altro). La questione è abbastanza complessa ed un breve post non è certamente adatto per discuterla in dettaglio. Mi limiterò ad alcuni esempi, anche a costo di fare un discorso monco e fin troppo semplificato.
Partiamo da un obiettivo che tutti credo condividiamo "salvare l'economia del Paese e ridurre al minimo i costi sociali della pandemia". Qualcuno poco informato su cosa stia effettivamente accadendo in Svezia potrebbe sostenere che "dovremmo seguire l’esempio svedese facendo finta che la Covid-19 non ci sia e lasciando che gli over-70 se la cavino da soli. E se crepano, pazienza, tanto non sono una parte importante del sistema economico del Paese". A chi, come il sottoscritto, i 70 li ha già superati la proposta appare un po' cinica (il mio è ovviamente un giudizio di parte!), ma sono molti coloro che - sia pure sottovoce - sarebbero pronti a sostenerla.
Peccato che costoro dimentichino un fondamentale corollario della loro ipotesi. Infatti se lasciamo che la pandemia proceda indisturbata, dovremmo essere consapevoli della necessità di introdurre una condizione accessoria: "chi si ammala di Covid-19 non verrà ricoverato in ospedale e si curerà a casa sua". Ad ogni ondata della pandemia, correremmo il rischio di avere un grande flusso di persone che intaserebbero gli ospedali, esattamente come sta succedendo attualmente in Italia. Si capisce facilmente che un Paese moderno non può pensare che la sua situazione socio-economica possa passare indenne attraverso settimane o mesi di paralisi del sistema sanitario. Quindi o si adotta un approccio rigidamente selettivo (sopravviva solo il più forte, a casa sua naturalmente) che neppure in Svezia sono riusciti ad attuare, oppure l'idea di continuare a vivere come se la Covid-19 non ci fosse non funziona.
L'obiettivo diametralmente opposto è quello di dire "salvaguardiamo sempre e comunque tutti, anche i più fragili". Anche qui se fossimo rigorosi fino in fondo, dovremmo vivere isolati in bolle che ci separino gli uni dagli altri, in una sorta di lockdown estremo. Tanto estremo quanto inutile perché purtroppo non c'è solo la Covid-19 ad insidiare la salute delle persone. Senza contare i danni socio-economici che tale scelta comporterebbe.
Ho fatto due esempi volutamente estremi solo per far capire l'impostazione del mio discorso. Un approccio realistico dovrebbe a mio parere fissare il livello massimo di ricoveri e di decessi che siamo disposti ad accettare. A cascata potremmo definire anche il livello massimo accettabile dei contagi e l’indice R (magari calcolato giornalmente con il ritardo di una settimana e non di due o tre settimane come accade attualmente) potrebbe essere utilizzato solo come segnale d’allarme quando c’è il rischio di superare la soglia massima accettabile dei nuovi contagi. E potremmo valutare anche gli investimenti da fare nei sistemi di diagnostica e di contact-tracing (e nelle relative tecnologie) che sono indispensabili per mantenere i sistemi sanitari sotto la soglia di allarme.
Capisco che per i decisori politici sia più facile raccontare favolette ed illudere gli elettori piuttosto che fare un discorso realistico che a qualcuno potrebbe apparire fin troppo duro. Ma un approccio serio dovrebbe esplicitare anche quantativamente gli obiettivi da raggiungere e solo sulla base di questi numeri sarebbe possibile sviluppare un set di indicatori che ci permettano di valutare la situazione attuale e le prospettive future.
In attesa che le nuove cure basate su anticorpi neutralizzanti o la somministrazione in massa di vaccini efficaci possano far finalmente entrare la Covid-19 nella normalità di una malattia come tutte le altre con cui convivere davvero.
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