mercoledì 3 febbraio 2021

Ha senso discutere di un vaccino “trentino”?

Il dibattito – a mio avviso un po’ lunare – che ha accompagnato l’ipotesi di avviare la sperimentazione di fase clinica per un possibile "candidato vaccino" sviluppato dal CIBio mette in luce le debolezze del sistema della ricerca pubblica italiana e la mancanza di consapevolezza dimostrata anche da tante persone che potrebbero (dovrebbero) svolgere un ruolo chiave nella delicatissima fase del collegamento tra ricerca accademica ed applicazione clinica/industriale.

Al solo scopo di fare un po’ di luce nel polverone mediatico che ci ha investito, vorrei mettere in evidenza alcuni punti che possono aiutare i non addetti ai lavori a farsi un’opinione su quanto accaduto. In particolare:
  1. Secondo la legge italiana i ricercatori che operano all’interno di una università pubblica sono i titolari dei diritti legati alle scoperte della loro ricerca. Mi riferisco, in particolare al diritto di brevettare e di sfruttare commercialmente l’idea. Questo approccio – a mio avviso un po’ balzano – del professore/imprenditore è stata pensato dal legislatore come una sorta di grimaldello atto a scardinare l’inerzia delle burocrazie universitarie. Prima dell’approvazione di questa legge, molte buone idee rimanevano nel cassetto perché il docente/scopritore avrebbe ricevuto limitati benefici economici dalla sviluppo industriale della sua idea. Paradossalmente, poiché per ottenere un brevetto può essere necessario ritardare/evitare la pubblicazione dei dati sperimentali, lo sfruttamento commerciale di una idea avrebbe prodotto un ritardo/riduzione delle pubblicazioni scientifiche, con conseguente danno alla carriera accademica dello scopritore.
  2. Il trasferimento dei diritti integrali al docente/scopritore avrebbe dovuto sbloccare la situazione, ma si è dimenticato un fatto fondamentale. Ottenere e soprattutto proteggere un brevetto è una operazione che richiede tempo, competenze specifiche e denaro. Ancora più lunghe ed onerose sono le procedure necessarie per portare un nuovo farmaco alla sperimentazione clinica. In pratica, siamo caduti dalla padella alla brace: oggi il docente/scopritore non ha più vincoli burocratici, ma non ha i mezzi per “mettersi sul mercato”, a meno che non sia ricco di suo o trovi un partner industriale disposto ad investire sulle sue idee. L’Università deve limitarsi a svolgere una generica funzione di “coach” informando soprattutto i giovani ricercatori delle possibilità offerte dalla legge, ma non può intervenire – neppure con modesti investimenti del tipo “seed money” – perché finirebbe immediatamente sotto il faro della Magistratura contabile.
  3. Un approccio più equilibrato – simile a quello che viene correntemente seguito dall’Istituto Italiano di Tecnologia – dovrebbe prevedere la possibilità per l’Ateneo di investire una parte delle sue risorse per favorire la brevettazione e la fase iniziale dello sviluppo industriale delle idee che sono state valutate come particolarmente valide e interessanti. A fronte di questi investimenti (e di quelli pregressi che hanno permesso al ricercatore/scopritore di sviluppare i suoi studi) l’Ateneo riceverà una parte degli eventuali utili, secondo regole chiare e trasparenti.
  4. Sappiamo che non tutte le ciambelle riescono col buco e quando parliamo di nuovi farmaci o nuove tecnologiche i margini di rischio sono altissimi. Ma se la valutazione dei rischi è affidata ad un comitato di esperti indipendenti e se le cose sono fatte alla luce del sole, si possono ottenere risultati molto positivi, da tutti i punti di vista. Purtroppo la legge universitaria nazionale non prevede questa possibilità. Se la Provincia di Trentino ogni tanto si ricordasse che essere autonoma significa innanzitutto realizzare progetti pilota utili anche per il resto d’Italia, forse varrebbe la pena di pensare ad una diversa organizzazione nella gestione dei brevetti. Non ci sarebbe neppure da spendere troppo tempo per capire cosa fare: basterebbe partire dall’esperienza dell’Istituto Italiano di Tecnologia ed adattarla alla realtà del nostro Ateneo e della rete degli istituti di ricerca trentini.
  5. Come fatto giustamente notare dal rettore Collini, quando a Trento si parla di sostegno pubblico tutti pensano implicitamente a “mamma Provincia”. In realtà questa è una distorsione del pensiero, abbastanza diffusa in terra trentina, ma molto limitata come prospettiva. Dovremmo pensare almeno alla dimensione nazionale e quindi non possiamo illuderci di fare tutto da soli. Questo è vero specialmente quando si ha a che fare con un problema globale come la pandemia.
  6. Considerato che non siamo ancora riusciti a finanziare le essenziali attività di sequenziamento virale, dubito fortemente che l’Italia riesca ad immaginare un piano nazionale per lo sviluppo di un vaccino. Ci sono numerose iniziative, tra cui una molto più avanzata dalle altre. Può essere interessante andare a ricostruire come sia stato deciso, ad esempio, il cospicuo finanziamento fin qui assegnato al progetto per il vaccino italiano Reithera. Io non mi scandalizzo per la corsia privilegiata che Autorità regionali e nazionali hanno offerto a questo vaccino. In tempi di pandemia possiamo assumerci dei rischi, ma non si capisce perché il Ministero dell’Università e della Ricerca prima di diventare un ardente sostenitore del vaccino Reithera non abbia fatto una ricognizione dei progetti esistenti nei diversi laboratori italiani (non c’è solo quello del CIBio), mettendo sul piatto un finanziamento iniziale abbastanza modesto (bastavano pochi milioni di Euro) per arrivare ad una prima valutazione delle loro effettive potenzialità. C’è il sospetto che, come accade spesso in Italia, si offra una corsia privilegiata agli “amici degli amici” e tutti gli altri non vengano neppure presi in considerazione. Poi – dati alla mano – se il progetto Reithera si fosse dimostrato quello più competitivo, si sarebbe potuto finanziare solo quello, chiudendo gli altri progetti.
  7. Veniamo infine alla domanda principale: ma vale davvero la pena pensare di sviluppare un vaccino autoctono o non è forse meglio produrre su licenza in Italia uno dei vaccini che ha dimostrato di funzionare meglio?”. Qui le risposte sono contrastanti ed io non ho le competenze per abbracciare l'una o l'altra posizione. Il prof. Mantovani – studioso che io stimo molto – è abbastanza deciso nell’affermare che sarebbe una operazione poco sensata: “Si tratta - ha dichiarato a La Stampa - di prodotti raffinati su cui non ci si può improvvisare, anche se il nostro Paese è un grande produttore di vaccini. Ci si può augurare, come avvenuto con l'accordo Pfizer-Novartis, che aziende libere con la capacità adatta si alleino con le case farmaceutiche che hanno trovato i vaccini per aumentarne la fabbricazione”. Altri sostengono che – da un punto di vista strategico – un vaccino sviluppato e prodotto in Italia metterebbe il Paese al riparo dai ricatti delle grandi case farmaceutiche. Molto dipenderà anche da quello che succederà in futuro. Se la vaccinazione anti-Covid dovesse diventare una pratica da ripetere ogni anno, così come facciamo per i vaccini antinfluenzali, un progetto tutto italiano potrebbe diventare più appetibile.
  8. Comunque, se anche avesse senso investire su un vaccino italiano, lasciate stare – vi prego – la Provincia Autonoma di Trento. Ha già fatto un sacco di disastri con la gestione della pandemia. Ci manca solo che si occupi di produrre il vaccino!

1 commento:

  1. Riguardo al punto 6:
    ----------------------

    “Il Commissario Arcuri risolva immediatamente il conflitto di interessi” – l’associazione Luca Coscioni contro il Commissario, che come AD di Invitalia ha investito 80 milioni su Reithera: “Si dimetta da uno dei due incarichi palesemente incompatibili. L'investimento è stato deliberato senza che vi fosse possibilità di approfondimento tecnico o pubblico circa quanto annunciato relativamente alla qualità, sicurezza ed efficacia del prodotto….”
    ansa.it – 30 gennaio 2021

    "Domenico Arcuri, Commissario con il mandato di dirigere il piano vaccinale, è allo stesso tempo l'amministratore delegato di Invitalia che ha investito in un'azienda privata italiana - parte di un consorzio internazionale - al lavoro su un vaccino in fase di sperimentazione".

    Questa la denuncia dell'Associazione Luca Coscioni, che chiede con un appello "al Governo, e allo stesso Arcuri, di risolvere immediatamente il conflitto d'interessi, dimettendosi da uno dei due incarichi palesemente incompatibili, per non pregiudicare la credibilità del suo operato in un momento così difficile per il Paese e di spiegare il perché della sua scelta di investimento".

    "Nel segnalare dubbi circa i dati sugli studi clinici in atto e i tempi di messa in produzione che alcune società scientifiche e ricercatori hanno manifestato in queste ore - spiegano Filomena Gallo e Marco Cappato, segretario e tesoriere dell'Associazione - riteniamo che la politica, anche in un momento di amministrazione degli affari correnti, non possa non farsi carico del conflitto d'interessi che investe Arcuri: commissario per l'emergenza sanitaria e CONTEMPORANEAMENTE amministratore delegato di Invitalia.

    L'investimento di oltre 80 milioni di euro pubblici in una società privata italiana, parte di un consorzio internazionale per la produzione di un vaccino, è stata deliberata senza che vi fosse possibilità di approfondimento tecnico o pubblico circa quanto annunciato relativamente alla qualità, sicurezza ed efficacia del prodotto.

    Una decisione presa da qualcuno che agisce nel massimo dei privilegi e delle immunità assicurate dalla gestione commissariale, che si garantisce i fondi necessari per far fronte all'emergenza al netto della valutazione di merito di quanto finanziato e nel momento in cui è pronto a intentare causa a potenziali concorrenti dell'azienda in cui ha investito".

    "Se starà alla scienza confermare che quanto annunciato circa il vaccino ReiThera corrisponda all'avanzamento degli studi - concludono - alla politica tocca esigere chiarezza circa l'amministrazione di soldi pubblici in un contesto emergenziale quanto delicato".

    Il video: https://www.youtube.com/watch?v=0WCzQpS4YTk

    L'investimento in Reithera, del quale Invitalia ha appena acquistato il 30% PER 81 MILIONI EURO di soldi pubblici, solleva una serie di dubbi procedurali e questioni di opportunità e segnala un grave conflitto d'interessi che riguarda il dottor Arcuri. Ne parlano Marco Cappato (Associazione Luca Coscioni) e Costantino De Blasi (Liberi, Oltre le illusioni). L'Associazione Luca Coscioni ha lanciato un appello al Governo perché si risolva il conflitto di interessi.

    RispondiElimina